
martedì 29 dicembre 2009
AUGURI (IN ANTICIPO)

sabato 26 dicembre 2009
A CHRISTMAS CAROL - 3D

Il film è molto bello, soprattutto l'ho trovato curato e fedele all'originale di Dickens. La scelta di farne un cartone in grado di mantenere mimiche e tratti facciali degli attori è azzeccata, gli scenari (Inghilterra '800 rocks) sono fantastici. Il 3D è il valore aggiunto, la storia procede veloce e rigorosa, non annoiando mai. Ci ho visto perfino 5 omaggi ad altrettanti film: Peter Pan (quando Scrooge viene toccato al cuore e si mette a volare), Raperonzolo (quando il fantasma dei natali presenti "snoda" una sorta di treccia-cinta dell'abito cui appendersi), ET (quando Scrooge si staglia contro la luna), Il signore degli anelli (quando un personaggio inquietante esce da sotto la gonna di uno dei fantasmi) e Alice (quando Scrooge si fa piccolo piccolo sul finale). Ci ho visto un sacco di metafore, ci ho visto perfino più morali dell'originale. Ma saranno state visioni dovute al pranzo di Natale, quindi non badateci.
giovedì 24 dicembre 2009
TELEFILM MANIA /2
domenica 20 dicembre 2009
NATALE! PAPPARARARARARARARA SPRAY! PAPPARARARARARARARA SALUTARE! PAPPARARARARARARARA
Raffreddore, mal di gola, tosse, mal di testa e poi di nuovo, in altro ordine. Sono assolutamente indietro con i regali di Natale: ogni anno mi riprometto di cominciare ai primi di dicembre e ogni anno, puntualmente, mi riduco a comprare tutto il ventiquattro regalando per la fretta a mia madre l'abbonamento a For Men Magazine e a mio padre una pochette per andare a vedere il balletto a teatro. Ovviamente questa scheggia d'influenza doveva arrivare proprio in questi giorni, per farmi rispettare in pieno la tradizione.
lunedì 14 dicembre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 13^ E ULTIMA PUNTATA

L’estate 2006 era stata importante e ricca di eventi. Alla fine del mese di agosto avevo già scelto quali sarebbero state le uniche facoltà in grado di attirare la mia attenzione per un divenire universitario: psicologia e scienze della comunicazione. Per mia fortuna, in quel di Milano Bicocca trovai ciò che faceva al caso mio: un indirizzo che, sotto psicologia, univa i due ambiti e dava la possibilità di scegliere, in un secondo momento, in cosa specializzarsi. Posso dire che, al contrario di molti miei compagni del liceo, sento e ho sempre sentito che quello era l’indirizzo di studi giusto per me, ciò che avrei sempre voluto fare, anche in ambito lavorativo. Nei primissimi giorni di Settembre tentai il test, dopo essermi preparato nel corso dell’estate con qualche libricino apposito e dopo aver ripassato alcune nozioni scolastiche e vari concetti di cultura generale.
Superai bene il test (arrivai secondo, ndm – nota del modesto) e mi decisi definitivamente a iscrivermi proprio lì. I primi giorni di università furono piacevoli, nonostante l’ora e mezza di treno che mi costringeva ad alzarmi due ore e rotti prima del dovuto, in vista di un anno pienamente votato alla sacra arte del pendolarismo. Le interminabili ore di treno, in effetti, avevano il difetto (oltre al costo esorbitante, lo sporco e il rischio di colera, i ritardi, l’ammassamento di gente e chi più ne ha più ne metta) di darmi tanto, troppo tempo libero per guardare fuori dal finestrino e pensare. Sempre stata una mia predisposizione, quella di pensare fino allo sfinimento. Ma ciò gli ultimi accadimenti avevano mutato in me, mi aveva portato a mettere da parte pensieri sentimental-nostalgici quali “fino a pochi mesi fa andavo al liceo sotto casa, ora faccio l’università in un’altra città”, sacrificandoli al pensiero fisso di M., che non ne voleva più sapere di uscire dalla mia testa. Dopo un’altra estate di procrastinamenti, la situazione con lui non era mutata, rimaneva fissa in un ipnotico e fastidioso alternarsi tra notti in cui era una persona, mattine in cui faceva finta di nulla, giornate normali e serate in cui tornava ad essere un ragazzo adorabile su cui amavo fantasticare. Tuttavia, la mia “pseudo relazione” con I., eredità di un’estate in cui l’occasione di poter avere una ragazza mi aveva “preso con le mani nel sacco”, rimaneva attiva e aveva intenzione di proseguire anche per i mesi autunnali.
La mia testa e il mio corpo non riuscivano a reggere questo ritmo. La sveglia era puntata, per tre giorni alla settimana, sulle 6.01 (ho sempre odiato mettere la sveglia agli orari “tondi”, non so perché), per poter prendere il treno di 6.36 (sempre di corsa, ho ben altre idee di “risvegli soft”) e arrivare in tempo alla lezione di 8.30. Tornavo a casa verso sera, stanco e affamato, dovendo anche trovare il tempo di uscire con una ragazza che non volevo, ma che “dovevo farmi piacere”, perché in fondo così avrei risolto tutto. Un paio di volte alla settimana, inoltre, vedevo M., soffrendo per i tuffi al cuore che un suo sorriso o un involontario sfregarsi delle mani avrebbe causato riportando alla mente i dolci contatti notturni della primavera e dell’estate prima. Cominciai a passare il tempo libero chiuso in casa, al computer, chattando dalla mattina alla sera con alcune persone, conosciute qua e là sulla rete. Alternavo l’attesa del vedere M. online alla gioia di raccontare tutta la mia storia e tutta la mia vita a un paio di persone conosciute per caso su internet (e mai di persona), che vedevo per la prima volta in grado di capirmi, con le quali mi sentivo per la prima volta in grado di essere me stesso. In casa era una bugia unica, non avevo mai potuto dire nulla di me e non ne avrei mai avuto intenzione, con la mia migliore amica vivevo ancora con la mia falsa identità eterosessuale, con M. e l’altro ragazzo non potevo fare parola della situazione insopportabile, non potevo compromettere tutto. Finchè, semplicemente, non ce la feci più. E decisi di sparire.
Pubblicai sul blog un intervento dal titolo “Sparirò”, andai avanti a vivere le mie giornate tra msn e gli interminabili viaggi in università, sparendo completamente dalla vita di M., smettendo di rispondergli ai messaggi, rendendomi irreperibile in qualsiasi modo avrebbe potuto contattarmi. Provò a scrivermi, ma non gli risposi. Provò a chiamarmi, ma gli ignorai le chiamate. Dopo due giorni del genere si rese conto che l’unica cosa da fare era consultare il mio blog, e capii. Mi arrivò un messaggio, di cui ricordo ancora buona parte, avendolo tenuto in memoria per quasi un anno: “Bella idea, sparire. E io? Non resta niente a me? Ok, sono uno stronzo e non capisco (cos’hai, ndr), ma pensavo di essermi meritato qualcosa di più che il silenzio”. Ignorai anche quello. Il punto era che lui sapeva che io soffrivo perché “ero innamorato di qualcuno”, ma non voleva capire che si trattava di lui. O meglio, lo sapeva benissimo ma non voleva/poteva ammetterlo ad alta voce. Addirittura un giorno dopo il tennis, sotto la doccia (e mi scuso per la squallidezza, ma ho proprio il ricordo del fatto che mentre ne parlavamo mi fissava con lo sguardo che io riservo giusto giusto alle pubblicità di Giorgio Armani con David Beckham), ipotizzò che mi fossi innamorato della sua ragazza. Tutto ciò era così subdolo, così bastardo. E comunque ero rimasto al suo gioco fino a quel momento.
Dopo quasi una settimana in cui non gli risposi, fece una cosa inaspettata: venne a prendermi in stazione, dopo un giorno in università. Sentivo in cuor mio che l’avrebbe fatto, sapeva i miei orari e sapeva che l’avrei voluto; semplicemente non credevo avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Nel mio ipod risuonava “My heart will go on” (riproduzione casuale, intendiamoci), salii le scale della stazione e mi trovai di fronte il suo ciuffo moro inconfondibile. Cercando di contenere l’emozione, tirai fuori un “ciao” di proporzioni incontrollate, che risuonò per tutta la stazione. Parlammo un po’, io avevo il cuore a mille. Disse che aveva ragionato, e che se non mi ero innamorato della mia ragazza, della sua, di quella di un passante, di qualche compagna di classe, di mia mamma, della sua o di quella di un passante, evidentemente il problema doveva essere lui. Sarcasticamente gli feci i complimenti, dopotutto c’era arrivato così in fretta. Eppure, nonostante in cuor suo questa certezza si fosse fatta “voce”, ci rimase male. Mi lasciò a casa, decidemmo di non sentirci per un po’. Era quello che stavo cercando di fare da giorni, pigna.
A casa stavo male, i dialoghi con i miei genitori erano relegati al minimo sindacale. Passavo da intere giornate al computer a momenti in cui i rapporti con loro erano ridotti all’osso, in cui, a tavola, non si andava oltre al “mh, sì” e altri amabili discorsi monosillabici. Poi, una sera, dissi a mia madre che stavo male. Le dissi che me ne volevo andare, cambiare aria, cambiare gente, che non ne potevo più. Piansi un po’. Lei capii che qualcosa andava oltre, che c’era dell’altro, mi chiese se mi ero innamorato. Confermai. Respirò a fondo, si fece coraggio e me lo chiese. Mi chiese se mi ero innamorato di una persona del mio stesso sesso. Io non avrei mai voluto dire di me ai miei, ero convinto che non ne avrei fatto parola fino ai 40 anni, fino a quando non avessi avuto una indipendenza economica, fino a quando non avessi abitato in un’altra casa. Tuttavia, in quel momento non ero in me, la domanda mi aveva preso alla sprovvista, eppure era stata fatta con una buona dose di dolcezza, di comprensione. Semplicemente, mentire sarebbe stato inutile, insultante, ulteriormente fastidioso per la situazione in cui mi trovavo. “Sì”. Fu quel semplice annuire che fece cominciare ufficialmente il mio coming out coi miei. Cominciai a parlarne con mia madre, provai a rassicurarla sul fatto che la cosa riguardasse solo la sfera sentimentale, che comunque io fossi attratto dalle ragazze, ma il danno era fatto. Poche ore più tardi, trovando mio padre sveglio da solo in sala, parlai anche con lui. Ricordo le sue parole: “credo da un po’ di tempo che tu sia omosessuale, ma ho paura di chiedertelo”. Se solo avesse saputo quanta paura avevo io, di chiedermelo, forse avrebbe aspettato un altro po’. Il clima era teso, l’aria irrespirabile. I giorni successivi al coming out (parziale), i musi erano lunghi come quelli che fino a qualche anno fa mi erano destinati dopo un
I miei genitori non la presero affatto bene. Il loro percorso d’accettazione stentò a partire, mi dissero che probabilmente non mi avrebbero accettato mai, che per loro la cosa era inconcepibile, che speravano in cuor loro potesse essere solo una fase, perché altrimenti la vita sarebbe stata terribile, costellata di immani difficoltà e loro non sarebbero stati in grado di affrontarla con me. Ricordo fasi di insulti senza capo né coda, ricordo di aver detto loro frasi di una volgarità inaudita, che se ci ripenso ora me ne vergogno sinceramente, ricordo altri momenti in cui si riusciva a parlare, con più calma, ricordo le loro notti insonni in sala, a parlare e piangere. Ricordo che non abbracciai mia mamma per alcuni mesi. Ricordo la sensazione di “tanto è tutto rovinato, tanto non torneremo mai più come prima, non torneremo mai ad essere una famiglia”. E giù insulti, e giù bombe a mano, per massacrarli, per farli sentire almeno un po’ come mi sentivo io. Per vendicarmi di certe frasi, per vendicarmi del fatto che fino a quel momento mi avessero ignorato e ora mi odiassero per quello che ero. C’ero già io ad odiarmi, bastavo e avanzavo.
Ricordo tanti momenti. Una notte, loro erano nel loro letto senza dormire, col bacino leggermente sollevato e lo sguardo perso nel vuoto. Li percepivo come se fossero morti, come se gli avessero tolto la voglia di vivere. Seduto sulla sedia in camera loro, mi misi a fare silenzio insieme a loro, con le stesse emozioni di chi finalmente riesce ad inserirsi in una discussione. Senza dire niente, mi pareva di riuscire a sintonizzarmi con loro. Anche quella sera, i miei tentativi di spiegarmi andarono a vuoto, sostituiti in breve da un litigio, dagli ennesimi insulti, dal mio chiudermi in camera, a chiave.
La fiducia era venuta meno: li detestavo perché pensavo mi detestassero. Meccanismo di difesa? Forse. Di sicuro non li aiutai, semplicemente perché non ero pronto per farlo. Non ero pronto io, avevo rinviato in continuazione il momento in cui mi sarei dovuto accettare, arrivando a un punto in cui i miei genitori sapevano di me senza che lo sapessi io.
Una domenica, con mio fratello presente (e ignaro), tirarono fuori una questione di messaggi sul cellulare spiati. Erano messaggi di un paio di ragazzi (gay) conosciuti su internet con cui messaggiavo in innocenza, parlando anche di omosessualità. Essendo loro convinti che fosse quel nuovo mondo, ad avermi portato sulla “cattiva via”, il discorso spiccò anche in presenza dell’altra parte della famiglia, nonostante mia cognata sapesse di me praticamente da sempre e si fosse sempre dimostrata dalla mia parte. Da parte di mio fratello non fu così. Quella sera mi chiamò, dicendosi preoccupato per ciò che aveva sentito uscire dalla bocca di mio padre. Mi raccontò la storia di un suo amico gay, con cui lui aveva provato ad essere amico, ma non era stato possibile perché lui ci aveva provato. Mi disse che i gay erano malati, contagiosi. Poi, la cosa più terribile, che anche oggi fatico a raccontare, perché la vissi come una violenza: mi chiese di giurargli che non fossi gay. “Giuramelo. Giuramelo!”. Al terzo imperativo glielo giurai, con scarsa convinzione. Capii che non avevo il suo appoggio, che avevo perso i rapporti con la mia famiglia, che così non potevo essere accettato.
A dicembre “lasciai” I., lei la prese male – era una ragazza fragile – ma fui abbastanza convincente nel farle capire (senza spiegarle niente) che il problema era mio e dovevo essere io a chiarirmi determinate idee.
Chi aiutò me e i miei genitori a venire fuori da un punto di non ritorno fu una psicologa. Decidemmo di andare da lei come ultimo tentativo, come ultima spiaggia. Facevamo sedute tutti e tre, poi altre volte andavano solo loro, raramente io da solo. Il punto non era, fortunatamente, far cambiare me, ma aiutare loro ad accettarmi, e aiutare tutti e tre a recuperare quell’unità familiare andata in frantumi. Quello che successe in quello studio fu un mezzo miracolo: quella terapeuta fu un angelo che, oltre ad aiutarci, mi fece innamorare ancora di più della materia. Per quanto riguarda noi tre, fu un percorso lunghissimo e decisamente tortuoso, che però, alla luce della situazione odierna, ha dato i suoi frutti.
“Mi feci passare” la cotta per M., che da una stupidata in nave mi aveva portato all’autodistruzione e ad uno dei momenti più critici della mia vita, facendomi perdere l’appoggio della mia famiglia e rendendomi, in qualche modo, la persona che poi avrebbe passato l’anno peggiore della sua vita. Semplicemente non lo sentii più, e quando lo risentii non provavo più le stesse cose per lui.
Mentre l’interminabile anno 2006 volgeva al termine, potevo riguardarmi indietro e notare i tanti, tantissimi avvenimenti che mi avevano portato a diventare quello che ero. Il percorso di crescita che mi aveva trasformato dal bambino che girava in bicicletta per le strade del lago a quel ragazzo che ora doveva ricostruire un delicato equilibrio familiare e accettare definitivamente la propria omosessualità. Potevo voltarmi indietro e rivedere anche gli errori che mi avevano portato a quel punto: tante bugie, tante cose nascoste e non dette, troppi rapporti vissuti più sulle idealizzazioni che su avvenimenti veri e propri. Ma avevo le carte in regola per diventare un ragazzo migliore.
Quello che non potevo sapere, però, era che l’errore più grande era già scritto a fuoco nel mio 2006 terribile. Non sapevo che in un momento qualsiasi di questa storia infinita, avevo già incontrato la persona che mi avrebbe devastato la vita, rivoluzionando me e tutto ciò che di buono ero riuscito a costruire. Non lo potevo sapere perché tutto ciò sarebbe successo nel corso di un 2007 infinito, fatto di lacrime e viaggi, di notti di passione e di atti di follia, fatto di colpi di testa e legami fortissimi, come mai era capitato prima. Un 2007 che, tuttavia, rimane soprattutto l’anno in cui ho conosciuto l’amore della mia vita, in cui ho dato il mio primo bacio e in cui, per la prima volta, ho fatto l’amore. Un 2007 che mi ha distrutto e fatto rinascere, nell’arco di pochi mesi.
Si tratta però di una storia lunghissima, che merita da sola un’intera stagione di “Bita”, che in un secondo momento spero di trovare il coraggio di scrivere. Perché certe cose, ricordarle, fa ancora male.
Ringrazio chi è giunto fino a qua, chi mi ha dimostrato affetto e si è trovato bene nel leggere la mia comune storia. E dico comune perché, nel raccontarla, non ci ho trovato niente di particolare, né ci ho dovuto aggiungere alcun particolare romanzato. La sua particolarità è stata quella di essere vera, di essere un percorso di crescita, o di essere stata vissuta. E sono questi elementi che rendono particolari e interessanti le storie di tutti noi.
Se vorrete, se vi interesserà, la seconda stagione di “Bita” la troverete prossimamente su queste pagine. Dietro lauto conguaglio economico, si intende J
domenica 13 dicembre 2009
SANTA LUCIA
+di+Dec13%2301.jpg)
Per me è sempre stata una festa immensa, molto più di Natale. Andavo a letto, la sera prima, in fibrillazione. Facevo sempre fatichissima ad addormentarmi, non vedevo l'ora che fosse la mattina dopo, ero combattuto tra la curiosità di aspettare e cominciare a sentire i rumori di Santa Lucia e dell'asinello (sì, era mulo-dotata), tra la paura che la troppa curiosità mi portasse a non ricevere regali e l'adrenalina in vista della mattina dopo. A dirla tutta, probabilmente i miei genitori si divertivano più di me: mia madre si occupava di dolci e regali, mio padre di una parte fondamentale, ossia la presentazione. Inondava la sala con stelle filate, infilandole ovunque, creando una sorta di ragnatela in cui amavo districarmi per arrivare ai regali.
La mattina di Santa Lucia mi svegliavo euforico, arrivavo alla sala tramite un sentiero di caramelle, rimanevo senza fiato per lo stupore delle stelle filanti, cominciavo a guardare i miei regali, che per la maggior parte ricalcavano fedelmente ciò che avevo scritto nella mia letterina - ero un bambino fortunato. Ogni singola caramella per terra era simbolo di quella mattina piena di belle sorprese ovunque. Era probabilmente la mattina più bella dell'anno, insieme a quella del mio compleanno. Sapere la "verità" mi aveva ferito tantissimo, non potevo accettare di aver creduto in qualcosa che non esisteva, ma probabilmente stavo solo faticando ad accettare il fatto di diventare grande.

giovedì 10 dicembre 2009
AL NON CUOR SI COMANDA
Sorvolando sulla questione del "Ti amo" (giusto dirlo? Quando? Come? Son solo parole? E' davvero difficile dirlo?) che meriterebbe un post a parte, mi pare di notare, recentemente, una certa "smania" da parte di novelli fidanzatini o presunti tali, nel voler bruciare le tappe, nel volere arrivare alla consapevolezza dello stare assieme, del fatto di amarsi trpp un kasino xoxo per poi lasciarsi con altrettanta velocità e, naturalmente, soffrire a suon di 10 gruppi strappalacrime sempre sul celebre social network.
Esattamente da cosa deriva questo bisogno? Sembra "una gara", dai dai l'importante è stabilire che siamo assieme e "dire che stiamo assieme", dire che sono fidanzato. Vedo nascere storie tra alcuni conoscenti e io, che appunto a malapena so chi sono, posso già stabilire con relativa certezza che quella "cosa" durerà il tempo di qualche scrausa settimana. Sono io un veggente o sono loro, che nel dirsi ti amo dopo due ore, nel giurarsi amore eterno dopo 4 e nel lasciarsi dopo 6, stanno facendo le cose tanto per fare?
Non c'è un tempo giusto in cui far maturare la relazione, ma ci sono step necessari che permettono la conoscenza dell'altra persona e il normale maturare della sfera di coppia. Come posso amare una persona che conosco da poco o niente?
Io, senza dare troppi spoiler per un'eventuale seconda stagione di Bita :D, ci ho messo un po' a dirlo, a maturarlo, e sono convinto che non fosse nemmeno quello il momento giusto. Per carità, ho un bellissimo ricordo del mio primo - e ultimo, perchè l'ho detto sempre e solo al mio attuale ragazzo - ti amo, ma probabilmente nella fretta di dirlo (e si parla di mesi passati prima di farlo, intendiamoci), l'ho detto prima che il mio amore per lui fosse completo. Che poi completo non lo è mai, perchè lo amo in un modo più maturo e profondo ogni giorno che passa, ma questa è un'altra storia.
domenica 6 dicembre 2009
L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI RIVER
martedì 1 dicembre 2009
ALLA TUA MOROSA PIACE QUESTO ELEMENTO
Ma solo io trovo brutto (per non dire squallido) il fatto che su Facebook parlino del proprio ragazzo al femminile? Voglio dire, nessuno ti (vi) obbliga a mettere "fidanzato ufficialmente", a dedicarvi ogni singolo link (di quelli alla "Moccia" per intenderci), ogni status, ogni mezza frase. Se lo fate accettate implicitamente che vi venga chiesto conto, altrimenti vi comportereste con più discrezione. Ma poi dov'è finita la sacra arte del "parlare in seconda persona senza specificare la terminazione di genere", con cui ho convissuto per tutta l'adolescenza (alla "sei una persona fantastica e speciale", per intenderci)? Non è davvero triste parlare al femminile per mettere a tacere i dubbi di persone che, se non sono amici, non sono tenuti a sapere le vostre cose e, se sono amici veri, si meritano di sapere la verità?
Ma soprattutto, se davvero vi interessa non insospettire la gente, perchè questa invasione su facebook, quel mettere "mi piace" ad ogni link dell'altro per poi commentare in modo "etero" in stile "sei un grande vecchio". Non è avvilente? Solo io mi farei un po' schifo a fare così?
Non è un modo per giudicare loro, che son due ragazzi simpatici e han tutte le attenuanti del caso, voglio proprio solo sapere da chi mi legge. Solo io lo vivrei come uno svilimento del rapporto (e un controsenso, vabbè) o anche per voi è una realtà quantomeno difficile da condividere?
lunedì 30 novembre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 12^ PUNTATA

Domenica 9 Luglio 2006. Ore 22.30.
Sto gridando contro un maxischermo con tutte le mie forze. “Francese di merda, sei un figlio di puttanaaaa, devi morireeeeeee”. No, seriamente, a guardarmi da fuori sembrerei quasi un eterosessuale. Sto per vedere la prima coppa del mondo italiana della mia vita e ancora non lo so. Mischio sudore e sofferenze in una serata che è a dir poco magica. Soffoco nel tifo e nelle grida i pensieri che mi hanno accompagnato in piazza, nel risveglio della mattina e nei giorni precedenti. È nella mia testa e non riesco a farne a meno, né di lui né delle sue incertezze.
Giugno 2006.
La quinta liceo finì così com’era cominciata: un’inutile paura e la delusione per un qualcosa di meno preoccupante del previsto. Mi trovai a ridosso degli esami indietro come non mai: recuperai l’intero programma di filosofia dei tre anni in una giornata, studiando su un libricino minuscolo passato per non so quante mani e presumibilmente scritto di pugno dallo stesso Sofocle. Ricordo che passai circa una decina di ore su quel libricino, portandomelo anche nella vasca da bagno per non perdere tempo, uscendone totalmente rincoglionito. Reduce dal ripassone generale di letteratura italiana di due giorni prima, finii per dividere i filosofi così come avevo fatto per gli autori, ossia in “buoni e cattivi”, “comunisti e fascisti”, “pessimisti e ottimisti”, “allegri e tristi” per riuscire a dire almeno due-tre concetti generali su tutti. La tesina mi piaceva, ma era stata una sommaria scopiazzatura generale di vari siti internet e un abile montaggio di figure colorate tra una pagina e l’altra. Arrivai, quindi, al tanto temuto esamone con qualche paura e molte cose non chiare in testa.
L’esame di maturità arrivò veloce, insieme alla tanto agognata patente e, ben più importanti, ai Mondiali di Calcio in Germania. Per la prima andai dritto, dopo le prime due false partenze, superando la teoria al terzo tentativo (con un solo errore) e cominciando a prendere lezioni di guida presso la mia amica Elisa, mio padre e l’autoscuola sotto casa. La prima volta in assoluto in cui guidai una macchina, infatti, fu proprio in un parcheggio fuori dalla scuola di canto con Elisa, che si fidò a darmi in mano la sua Renault Twingo benzina per insegnarmi il gioco frizione, ossia il meccanismo più difficile da imparare per chi vuole cominciare a guidare. Le esperienze con mio padre non furono particolarmente (da me) apprezzate, invece, e si limitarono a un paio di tentativi in zona industriale. La scuola guida, naturalmente, era obbligatoria. L’istruttore era un uomo di mezz’età molto serioso, rasato e nostalgic-nazi, era buono e amichevole ma ebbe il buon senso di terrorizzarmi urlando quando, gasato dai primi chilometri macinati, ci presi gusto e, con un ritmo sostenuto, bruciai uno stop. Sarà un caso, ma da quel trauma ad oggi non ho più bruciato uno stop.
In Germania, negli stessi giorni, l’Italia cominciava a giocarsi i suoi Mondiali, superando il proprio girone preliminare e approdando ai turni ad eliminazione diretta. Vivevo quelle partite con un pathos e un calore inspiegabili, tanto era cocente la delusione di quattro anni prima contro
La finale, qualche giorno dopo, decisi di vederla in una delle piazze della città, in compagnia di Caro e di due altre amiche. Sì, so che la cosa già smonta la tesi del “tifoso etero” buttata lì all’inizio, ma assicuro che in quella calda serata di luglio non c’era davvero nessun’altra soluzione possibile. L’andazzo della partita, d’altra parte, è storia nota. I miei festeggiamenti, praticamente, altrettanto. Le urla e la gioia di quella notte infinita furono incontenibili e generali, vidi una città in festa e centinaia di persone che se ne fregavano dei loro pensieri, delle loro vite. Cercai di fare altrettanto e mi tolsi M. dalla testa. Almeno per quelle poche ore che mi erano concesse.
I voti dell’esame di maturità uscirono qualche giorno dopo. Fu un 67, senza lode e senza infamia. Confermò il mio trend scolastico, senza grossi picchi. Venni a sapere successivamente che alcuni professori erano riusciti a vendicarsi, in fase di riunione, per alcuni miei atteggiamenti che avevano dovuto forzatamente ingoiare nei passati cinque o tre anni. La cosa non mi turbò granchè, nell’orale non avevo certamente brillato per acume facendo scena muta alla domanda di biologia e non spiccando in quella di fisica.
Il trentun luglio portai a termine l’altro compito che l’estate mi aveva messo di fronte: la patente. L’istruttore mi preparò con le solite inversioni a U, parcheggi a S, giravolte a Y e chi più ne ha più ne metta, poiché conosceva il papabile esaminatore e decise di prepararmi in vista dell’esame che avrei ricevuto. Il giorno stesso dell’esame pratico mi accolse spaventato, dicendo che l’esaminatore era cambiato, questo non voleva vedere grandi manovre ma persone sveglie, che sapessero guidare in modo fluido nel traffico. Capii la sua apprensione e il suo smarrimento per questo cambio all’ultimo minuto, ma la cosa non mi turbò. Ero esattamente a conoscenza di chi sarebbe stato il mio esaminatore e di come si sarebbe svolto l’esame. Il fatto che una mia amica fosse fidanzata con uno che lavorava in motorizzazione aveva aiutato, e bene. Feci l’esame, l’esaminatore mi fece fare circa un chilometro di strada dritta, una rotonda e altri cento metri, facendomi accostare e dandomi una patente abbastanza scandalosa. Sì sì, lo so, non si fa, pazienza.
Festeggiai chiamando M., organizzando una serata insieme per brindare alla mia patente, crogiolandomi nel fatto che finalmente avrei potuto guidare io. Un’altra serata assieme, un’altra occasione in cui il mio cuore batteva per lui e si prendeva sempre di più. Cominciavo a non poter più fare a meno di lui.
Quell’estate al lago fu diversa da tutte le altre. Marco e Betta arrivavano più tardi del solito, intorno alla metà di agosto, mentre io mi barcamenavo tra i ragazzi presenti, tentando di non farmi rovinare l’estate. Fu in quei giorni di mezza solitudine che conobbi I., una ragazza vicina di casa al lago fin dall’anno precedente, simpatica e “alla mia portata”, con la quale presi a passare tante serate in quei primi giorni d’agosto. Avevamo qualcosa di simile, qualche irrequietezza che ci avvicinava, ci faceva confidare. Nessun passo avanti, ma si percepiva nell’aria che qualcosa poteva succedere. Il “qualcosa” accadde la notte di Ferragosto, complici i fiumi d’alcool che, come ogni anno, scorrevano abbondanti. Passammo la serata a baciarci e, in qualche modo, suggellammo un tacito patto secondo il quale saremmo stati “assieme” almeno per quello scampolo d’estate. Non so perché lo feci, non so cosa volevo, non mi piaceva, ma la mia coscienza mi imponeva di trovarmi una ragazza, di farmela piacere, di starci assieme.
Qualche giorno dopo invitai M. (e l’altro) al lago, dove si sarebbero fermati a dormire per qualche giorno. Gli incontri ravvicinati del terzo tipo con M. non finirono, anzi. Si replicò in un contesto un po’ sbagliato: la festa a casa di I. Sostanzialmente quella sera, invece di dormire nel letto con la mia presunta ragazza, dormii con M., davanti a tutti, fregandomene. Assurdamente, nessuno sospettò, la cosa risultò “strana”, ma non mi si fecero grosse domande.
Pochi giorni dopo ci fu la possibilità di andare con M. e l’altro nostro amico in vacanza in Romagna. Presi l’occasione al volo, convinto che fosse quasi un andare incontro al destino. I sette giorni di vacanza scivolarono via tranquilli, nonostante alcune notti rimanessero saldamente dedicate al nostro passatempo preferito; qualcosa che alla luce del sole doveva scomparire come se non fosse mai successo. Eppure io rimanevo al suo gioco, implicitamente lo accettavo. Ne ero complice, ma ci soffrivo.
L’estate
Tutto questo e molto, molto altro nell’interminabile FINALE DI STAGIONE di Bita, tra due settimane su queste pagine.
giovedì 26 novembre 2009
QUESTIONE DI TEMPISMO
lunedì 23 novembre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 11^ PUNTATA

Ora, la cosa non mi colpì tanto per il termine, quanto per la persona che l'aveva pronunciato. Non era da lui, semplicemente (sorvolando su tutti i normali rimandi alla sua presumibile repressione, ma non siamo qui per psicanalizzarlo). Un ragazzo di Chiesa, ma comunque sempre educato, anche abbastanza restìo a schierarsi nei momenti di discussione. Quel "frocio", detto così, con disgusto, con rabbia, senza che gliene fosse mai uscito uno dalla bocca, fu una cosa inutile e fuori luogo, che vivetti malissimo. In tutti i sette giorni di gita, nonostante fossimo in camera assieme praticamente sempre, ci ignorammo o parlammo a monosillabi, senza mai toccare nemmeno lontanamente il discorso "prima notte in nave". La gita passò lenta e inutile, fino al ritorno, di nuovo in nave.
Quella volta fummo di nuovo in cabina assieme, con il terzo ragazzo dell'andata e un quarto nostro compagno di classe, non presente all'andata. Ci mettemmo a letto (ognuno nel suo, questa volta), contando di addormentarci entro breve. Parlammo un po', scivolando via via nel sonno. La cosa mi irritò: quella gita che all'andata era stata tanto sconvolgente si sarebbe risolta in un nulla di fatto, esattamente come voleva lui, come se niente fosse successo, come se con un "vai, frocio", lui avesse potuto cancellare quella notte dalla sua testa e, insultandomi, fosse riuscito a ristabilire i toni e i confini che gli erano stati insegnati fin da piccolo. Ma io decisi di non prestarmi a quel giochetto di merda, e passai al contrattacco, tirando fuori dal cappello una delle idee più brillanti (per tempistica) mai avute. Approfittando di un momento in cui ognuno (tranne lui) raccontava determinate esperienze personali o vissute da amici, raccontai agli altri tre una certa storia. La storia parlava di un mio amico e una mia amica, da sempre in buoni rapporti, che una notte si trovarono, per caso, a condividere un determinato momento intimo. Non lesinai i dettagli, fissando dritto nell'oscurità verso il suo letto. Parlai dell'insicurezza di lei, della cattiveria di lui nel fingere che non fosse successo niente, nello sfotterla, mi feci dare dei consigli su come si sarebbero comportati loro in quella situazione. Quella ardita metafora mi fece arrivare a fargli capire che "sapevo che lui sapesse", che capivo ciò che gli passava per la testa e ritenevo imperdonabile il suo comportamento. Dopo quella discussione ci addormentammo.
La mattina dopo gli altri 3 scesero a far colazione, mentre io rimasi in camera a dormire ancora una mezzoretta. Lui fu il primo a tornare in camera, stavolta da solo, portandomi una fetta di torta da sgranocchiare per non salare di netto la colazione. "Con la storia di ieri ti riferivi a noi... cioè, a me, vero?". Mi sorprese, per la prima volta, l'aria risoluta che assunse, tipica di chi non vuole girarci attorno all'infinito. Ne parlammo e tornò a deludermi: secondo lui ciò che accadde sette notti prima fu un mio tentativo, fu tutta una mia responsabilità, mentre lui stava solo cercando di dormire. Fui chiaro: per me non era così e lui lo sapeva bene, ma ben preso la discussione si spostò sul nostro rapporto, mettendo da parte quell'aspetto che, probabilmente, era stato la causa scatenante del mio interesse improvviso.
Il chiarimento fu insperato ma abbastanza inutile; mi lasciò con una sensazione di tempo perso, nulla di fatto. Il viaggio in nave era quasi giunto al termine, tutti eravamo riuniti in zona bar con le valigie pronte per tornare sulla terraferma. Non vedevo l'ora di tornare a casa, ma qualcosa in quel momento toccò le mie corde in un modo che non avrei creduto possibile. M., seduto ad un tavolo del bar, stava parlando ad alcuni miei compagni di alcuni aspetti della sua vita: raccontò del suo rapporto con la religione, della sua storia che andava avanti da più di due anni, della scelta di arrivare vergine al matrimonio e della sua famiglia. Lui, ottavo di otto fratelli, attirò la mia attenzione per il modo in cui parlava dei suoi familiari, con amore, con rispetto, raccontandomi dell'organizzazione di una famiglia numerosa, di tutto un sistema di valori e ideali in cui credeva e per cui lottava. Mentre ora una persona così la manderei probabilmente a cagare con tante pacche sulle spalle per la pietà, in quel momento io, più fragile, vidi in lui qualcosa di mai visto prima.
Tornati a scuola mi trasferii al banco vicino a lui, cominciando a creare un'amicizia davvero disinteressata e bella. Io lui e un altro ragazzo (quello presente all'andata in nave, per intenderci) cominciammo anche a frequentarci fuori da scuola, ritagliandoci uno spazio fisso tutto nostro, sviluppando una vera e propria amicizia. Con l'arrivo della primavera cominciai quindi ad organizzare degli week end al lago, dormendo fuori e passando le giornate assieme. In quelle notti, neanche a dirlo, tutto si ripeteva uguale: volta dopo volta, notte dopo notte, stagione dopo stagione. M. di notte era un'altra persona, mi abbracciava, mi coccolava, mi faceva grattini, mi toccava, avvicinava le labbra alle mie quasi a volere abbozzare un bacio. Di giorno non se ne parlava, io sapevo che parlarne sarebbe stato inutile, che lui avrebbe negato tutto e si sarebbe rifugiato dietro il sempreverde "stavo dormendo". Eppure il rapporto andava avanti, sotto un velo di falsità e di ammirazione crescente, da parte mia. Ogni sera lo guardavo scendere dalla macchina e sognavo di baciarlo, di vivere qualcosa di importante con lui, così amorevole nella vita di tutti i giorni e così codardo nel metterla a tacere quando il sole tornava dopo una notte in cui il corpo non rispondeva più alla testa.
Non sapevo che mi stavo innamorando, che mi ero "innamorato". Lo pensavo tutti i pomeriggi, a casa non aspettavo altro di vederlo collegato a msn (avevo messo una sigla tutta sua per accorgermi anche da un'altra stanza di quando entrava) per parlargli. Poi arrivò l'estate del 2006, l'estate dei mondiali e della mia prima storia. Con una ragazza. Tuttavia l'infatuazione per M. rimaneva intatta, cresceva e mi avrebbe ben presto portato all'autodistruzione.
(continua nella 12^ e penultima puntata)
mercoledì 18 novembre 2009
IL SIMBOLO PERDUTO

Voto: 6,5
lunedì 16 novembre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 10^ PUNTATA

Il mese dopo potei riprovarci, con la sicurezza di un intero libro di esercizi concluso con una media invidiabile di 1 errore e mezzo a scheda. Mi preparai, infreddolito e terrorizzato, facendomi di nuovo portare da mio padre. Quella volta, tuttavia, commisi un errore imperdonabile: saltai un passaggio. Quello dei documenti. Arrivato davanti alla porta della motorizzazione, mi tastai le tasche accorgendomi con orrore che non avevo preso il portafoglio, e, con esso, la carta d'identità. Ci misi due-tre minuti a trovare il coraggio di dirlo a mio padre. Qualsiasi richiesta di deroga o strappo alla regola fu negato da parte degli esaminatori, mia madre non se la sentì di fare una corsa ai limiti del legale per portarmela e rimasi, ancora una volta, a bocca asciutta. Inutile dire che la delusione e l'irritabilità raggiunse livelli immensi, mentre mio padre riusciva a rendere tutto più difficile sottolineando in continuazione l'errore e non mancando di ricordarmi quanto fosse deluso da me e dalla mia superficialità.
Mi svegliai un'oretta dopo, con la testa molto vicino alla sua, accorgendomi di dov'ero rimasto. La cosa non mi dispiacque. Pur non essendo un adone, M. era l'unico con un fisico ancora da "ragazzo", come me, in tutta la classe, mentre tutti facevano già grande sfoggio di fisiconi, altezze improponibili e barbe incolte. Rimasi lì, finchè lui, nel sonno, si voltò verso di me, mettendomi un braccio attorno alla vita e, di fatto, abbracciandomi. Andammo avanti così, in un'altra mezz'ora circa di sonno travagliato, finchè mi svegliai e ci trovai ancora più vicini di prima, con le gambe intrecciate. La vicinanza mi piaceva, il mio corpo reagì e cominciai a sragionare. Spostai un ginocchio, accorgendomi che anche lui era eccitato. Il ragazzo, fidanzato da anni con una coetanea del suo oratorio, centesimo di cento fratelli, fervente ciellino e fedele servo del signore e della Chiesa Cattolica, era ora nel letto con il sottoscritto, in un abbraccio inspiegabilmente colmo d'eccitazione. I suoi movimenti continui mi confermarono che nemmeno lui stava davvero dormendo. Girato completamente verso di me, cominciò di colpo a strusciarsi contro la mia coscia. Lasciai fare (figurarsi, non sono sgarbato). A forza di girarci e rigirarci, diedi per scontato che il ragazzo aveva dimostrato una certa (inspiegabile) disponibilità, e tentai il tutto per tutto. Gli accarezzai la pancia e scesi, all'interno dei pantaloni del pigiama. Per i primi momenti mi lasciò fare, poi mugugnò e si girò di spalle, concludendo così il mio approccio. Decisi di non tentare oltre la sorte, nonostante nelle restanti ore si sarebbero susseguiti altri abbracci e carezze da parte di entrambi. Quando entrò il quarto inquilino della camera, poi, barcollante per l'alcool, M. si staccò di scatto, confermandomi che era pienamente sveglio e consenziente. Nessuno degli altri due inquilini di quella cabina notò niente, e noi due ci svegliammo la mattina dopo come se nulla fosse.
sabato 14 novembre 2009
NON MI PIACE FARE IL PRELIEVO DEL SANGUE PERCHE':
- La sveglia è fissata per orari sulla cui esistenza ho sempre dubitato... tali "sette di mattina", "otto di mattina", che credevo fossero un'invenzione delle multinazionali del caffè e, invece, ho appurato che vengono davvero segnalate dagli orologi.
- Mi piscio addosso. Il tutto nasce da un episodio traumatico della mia infanzia, in cui io, piccolino, feci pipì a casa, appena sveglio, trovandomi senza risorse idriche al momento in cui dovevo fornirle in ospedale. Il tutto corredato da mio padre, fuori dal bagno, che urlava in mezzo alle persone in attesa "cazzo, sbrigati, fai pipì, muoviti cazzo" e io, spaesato e in ansia, che me lo spremevo furioso ricavandoci anche un rene e una scarpa da ginnastica ma nemmeno una goccia di pipì. Ci misi due ore. Per evitare repliche, la tengo da secoli prima, arrivando al prelievo con l'aria rilassata di chi sta per rapinare una questura dei carabinieri.
- Me ne tolgono a litri. E' triste vedere tutti quelli attorno a me che tornano dal prelievo con una o due boccette, mentre a me viene chiesto se per portarle al bancone ho bisogno di un montacarichi o mi accontento della carriola. Di solito l'infermiera comincia a prelevarmelo con un festoso discorso per distrarmi, ma dopo aver parlato dell'università, delle malattie, della gioventù, del tempo, del governo, della sua famiglia, del giorno del suo diploma, del fatto che il suo lettore dvd non funziona più e anche della perplessità sulla vittoria di Marco Baldini alla Fattoria 4, di solito cala il gelo per i restanti venti-venticinque minuti.
- Le insinuazioni sulla mia età. Era già fastidioso a 8 anni sentirmi dire "ma cammina già questo campioncino" o "ma senti che bravo che è a parlare", dava fastidio sentirsi dire a 18 anni che loro coi bambini usano la farfallina per non fargli sentire male, ma non è il massimo neanche a 22 sentirsi consigliare di "andare a scuola, dopo il prelievo, che i primi anni di liceo non si può cominciare a fare assenze".
- E' buio, fa freddo e uno non può neanche far pipì o la colazione. Non so cosa mi vesto a fare, sfatto per sfatto la prossima volta vado lì direttamente in pigiama.
- La gente in coda vuole fare salotto. Idiota, ti sembra che siamo in coda per il concerto della Pausini o per farci prelevare il sangue? Di cosa dobbiam parlare, dell'RH positivo e di quella volta che uno è morto perchè gli han bucato l'aorta? Lasciami in pace, che è notte fonda.
lunedì 9 novembre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 9^ PUNTATA

giovedì 5 novembre 2009
SURPRISE SURPRISE
lunedì 2 novembre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 8^ PUNTATA

La prima occasione importante fu un concorso provinciale, di cui lei lesse la pubblicità, che ci vide iscritti in coppia. Scegliemmo "Vorrei incontrarti tra cent'anni", di Ron e Tosca, unico duetto che si adattava sia alla mia sia alla sua voce. La sera del concorso provai l'emozione più controversa di sempre. Prima di salire sul palco attendevo con l'ansia di chi sa che sta per essere interrogato ed è impreparato. Al momento di esibirmi provai quella cosa che avrei cominciato a domare e ad amare negli anni seguenti. Quell'adrenalina sciolta, che si impadroniva di braccia e gambe, che dava calore, e faceva tremare. Come sulle montagne russe, ma diluita nell'arco di cinque minuti. In mezzo a quella sensazione, bisogna esibirsi.
(continua)
domenica 1 novembre 2009
UP - 3D

Voto: 9
sabato 31 ottobre 2009
I PREMI DEL QUIIIZ^2
non mi conoscete, non sapete chi sono, ignorate totalmente la mia esistenza come io la vostra fino a 10 minuti fa. Poi son capitato sul vostro blog per sbaglio e ora sto così :|
siete STUPENDI, meravigliosi, fortunatissimi, belli e trasudate amore positivo da ogni poro. Avete avuto la fortuna di conoscervi prestissimo e innamorarvi. Spettacolo :)
In tutto ciò, tanti auguri, siete stupendi e dovrebbero essere tutti come voi ^_^
ciau
Ale
lunedì 26 ottobre 2009
BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 7^ PUNTATA
