lunedì 30 novembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 12^ PUNTATA

Domenica 9 Luglio 2006. Ore 22.30.

Sto gridando contro un maxischermo con tutte le mie forze. “Francese di merda, sei un figlio di puttanaaaa, devi morireeeeeee”. No, seriamente, a guardarmi da fuori sembrerei quasi un eterosessuale. Sto per vedere la prima coppa del mondo italiana della mia vita e ancora non lo so. Mischio sudore e sofferenze in una serata che è a dir poco magica. Soffoco nel tifo e nelle grida i pensieri che mi hanno accompagnato in piazza, nel risveglio della mattina e nei giorni precedenti. È nella mia testa e non riesco a farne a meno, né di lui né delle sue incertezze.

Giugno 2006.

La quinta liceo finì così com’era cominciata: un’inutile paura e la delusione per un qualcosa di meno preoccupante del previsto. Mi trovai a ridosso degli esami indietro come non mai: recuperai l’intero programma di filosofia dei tre anni in una giornata, studiando su un libricino minuscolo passato per non so quante mani e presumibilmente scritto di pugno dallo stesso Sofocle. Ricordo che passai circa una decina di ore su quel libricino, portandomelo anche nella vasca da bagno per non perdere tempo, uscendone totalmente rincoglionito. Reduce dal ripassone generale di letteratura italiana di due giorni prima, finii per dividere i filosofi così come avevo fatto per gli autori, ossia in “buoni e cattivi”, “comunisti e fascisti”, “pessimisti e ottimisti”, “allegri e tristi” per riuscire a dire almeno due-tre concetti generali su tutti. La tesina mi piaceva, ma era stata una sommaria scopiazzatura generale di vari siti internet e un abile montaggio di figure colorate tra una pagina e l’altra. Arrivai, quindi, al tanto temuto esamone con qualche paura e molte cose non chiare in testa.

L’esame di maturità arrivò veloce, insieme alla tanto agognata patente e, ben più importanti, ai Mondiali di Calcio in Germania. Per la prima andai dritto, dopo le prime due false partenze, superando la teoria al terzo tentativo (con un solo errore) e cominciando a prendere lezioni di guida presso la mia amica Elisa, mio padre e l’autoscuola sotto casa. La prima volta in assoluto in cui guidai una macchina, infatti, fu proprio in un parcheggio fuori dalla scuola di canto con Elisa, che si fidò a darmi in mano la sua Renault Twingo benzina per insegnarmi il gioco frizione, ossia il meccanismo più difficile da imparare per chi vuole cominciare a guidare. Le esperienze con mio padre non furono particolarmente (da me) apprezzate, invece, e si limitarono a un paio di tentativi in zona industriale. La scuola guida, naturalmente, era obbligatoria. L’istruttore era un uomo di mezz’età molto serioso, rasato e nostalgic-nazi, era buono e amichevole ma ebbe il buon senso di terrorizzarmi urlando quando, gasato dai primi chilometri macinati, ci presi gusto e, con un ritmo sostenuto, bruciai uno stop. Sarà un caso, ma da quel trauma ad oggi non ho più bruciato uno stop.

In Germania, negli stessi giorni, l’Italia cominciava a giocarsi i suoi Mondiali, superando il proprio girone preliminare e approdando ai turni ad eliminazione diretta. Vivevo quelle partite con un pathos e un calore inspiegabili, tanto era cocente la delusione di quattro anni prima contro la Corea. La semifinale, contro la Germania, la vidi a casa di M. Già, io e M. (con il terzo ragazzo sempre in mezzo, naturalmente) eravamo diventati sempre più amici, avevamo colto l’occasione per preparare assieme gli esami e avevamo iniziato a coltivare l’abitudine di uscire assieme almeno una volta alla settimana, nonostante si abitasse decisamente distanti. Andai da lui per l’ora di cena, mangiammo assieme e finalmente ebbi uno scorcio della sua tanto decantata famiglia. In quello che era un porto di mare, più che una casa, si alternavano genitori, nonni e fratelli, immagini sacre e crocifissi pacchiani alle pareti. Io guardavo ammirato, lui parlava sempre bene dei suoi parenti, mi aveva affascinato fin dal giorno del ritorno in nave, era quasi come se mi fossi innamorato dell’amore che traspariva dalle sue parole. Come se mi fossi cotto per un ragazzo che dimostrava tanta capacità di amare. La semifinale, naturalmente, fu al cardiopalma. Esultammo e ci abbracciammo, al gol decisivo di Grosso e a quello conclusivo di Del Piero. L’Italia era in finale, io ero a casa del mio compagno di classe che avevo ignorato per due anni e mezzo e di cui ora ero completamente cotto, che a volte dimostrava di adorarmi, altre mi allontanava, altre ancora ricambiava ogni forma di mia attenzione.

La finale, qualche giorno dopo, decisi di vederla in una delle piazze della città, in compagnia di Caro e di due altre amiche. Sì, so che la cosa già smonta la tesi del “tifoso etero” buttata lì all’inizio, ma assicuro che in quella calda serata di luglio non c’era davvero nessun’altra soluzione possibile. L’andazzo della partita, d’altra parte, è storia nota. I miei festeggiamenti, praticamente, altrettanto. Le urla e la gioia di quella notte infinita furono incontenibili e generali, vidi una città in festa e centinaia di persone che se ne fregavano dei loro pensieri, delle loro vite. Cercai di fare altrettanto e mi tolsi M. dalla testa. Almeno per quelle poche ore che mi erano concesse.

I voti dell’esame di maturità uscirono qualche giorno dopo. Fu un 67, senza lode e senza infamia. Confermò il mio trend scolastico, senza grossi picchi. Venni a sapere successivamente che alcuni professori erano riusciti a vendicarsi, in fase di riunione, per alcuni miei atteggiamenti che avevano dovuto forzatamente ingoiare nei passati cinque o tre anni. La cosa non mi turbò granchè, nell’orale non avevo certamente brillato per acume facendo scena muta alla domanda di biologia e non spiccando in quella di fisica.

Il trentun luglio portai a termine l’altro compito che l’estate mi aveva messo di fronte: la patente. L’istruttore mi preparò con le solite inversioni a U, parcheggi a S, giravolte a Y e chi più ne ha più ne metta, poiché conosceva il papabile esaminatore e decise di prepararmi in vista dell’esame che avrei ricevuto. Il giorno stesso dell’esame pratico mi accolse spaventato, dicendo che l’esaminatore era cambiato, questo non voleva vedere grandi manovre ma persone sveglie, che sapessero guidare in modo fluido nel traffico. Capii la sua apprensione e il suo smarrimento per questo cambio all’ultimo minuto, ma la cosa non mi turbò. Ero esattamente a conoscenza di chi sarebbe stato il mio esaminatore e di come si sarebbe svolto l’esame. Il fatto che una mia amica fosse fidanzata con uno che lavorava in motorizzazione aveva aiutato, e bene. Feci l’esame, l’esaminatore mi fece fare circa un chilometro di strada dritta, una rotonda e altri cento metri, facendomi accostare e dandomi una patente abbastanza scandalosa. Sì sì, lo so, non si fa, pazienza.

Festeggiai chiamando M., organizzando una serata insieme per brindare alla mia patente, crogiolandomi nel fatto che finalmente avrei potuto guidare io. Un’altra serata assieme, un’altra occasione in cui il mio cuore batteva per lui e si prendeva sempre di più. Cominciavo a non poter più fare a meno di lui.

Quell’estate al lago fu diversa da tutte le altre. Marco e Betta arrivavano più tardi del solito, intorno alla metà di agosto, mentre io mi barcamenavo tra i ragazzi presenti, tentando di non farmi rovinare l’estate. Fu in quei giorni di mezza solitudine che conobbi I., una ragazza vicina di casa al lago fin dall’anno precedente, simpatica e “alla mia portata”, con la quale presi a passare tante serate in quei primi giorni d’agosto. Avevamo qualcosa di simile, qualche irrequietezza che ci avvicinava, ci faceva confidare. Nessun passo avanti, ma si percepiva nell’aria che qualcosa poteva succedere. Il “qualcosa” accadde la notte di Ferragosto, complici i fiumi d’alcool che, come ogni anno, scorrevano abbondanti. Passammo la serata a baciarci e, in qualche modo, suggellammo un tacito patto secondo il quale saremmo stati “assieme” almeno per quello scampolo d’estate. Non so perché lo feci, non so cosa volevo, non mi piaceva, ma la mia coscienza mi imponeva di trovarmi una ragazza, di farmela piacere, di starci assieme.


Qualche giorno dopo invitai M. (e l’altro) al lago, dove si sarebbero fermati a dormire per qualche giorno. Gli incontri ravvicinati del terzo tipo con M. non finirono, anzi. Si replicò in un contesto un po’ sbagliato: la festa a casa di I. Sostanzialmente quella sera, invece di dormire nel letto con la mia presunta ragazza, dormii con M., davanti a tutti, fregandomene. Assurdamente, nessuno sospettò, la cosa risultò “strana”, ma non mi si fecero grosse domande.

Pochi giorni dopo ci fu la possibilità di andare con M. e l’altro nostro amico in vacanza in Romagna. Presi l’occasione al volo, convinto che fosse quasi un andare incontro al destino. I sette giorni di vacanza scivolarono via tranquilli, nonostante alcune notti rimanessero saldamente dedicate al nostro passatempo preferito; qualcosa che alla luce del sole doveva scomparire come se non fosse mai successo. Eppure io rimanevo al suo gioco, implicitamente lo accettavo. Ne ero complice, ma ci soffrivo.

L’estate 2006 mi lasciava una maturità, una patente, un titolo mondiale, un’infatuazione sempre più forte per M. e, a sorpresa, una ragazza. Come avrei fatto combaciare queste ultime due cose? E come avrei reagito all’inatteso e sconvolgente coming out coi miei genitori, che spaccò l’aria come una bomba?

Tutto questo e molto, molto altro nell’interminabile FINALE DI STAGIONE di Bita, tra due settimane su queste pagine.

giovedì 26 novembre 2009

QUESTIONE DI TEMPISMO

Non credo che il tempo sia solo una dimensione relativa, un qualcosa di soggettivo che cambia a seconda dei punti di vista. Non solo, appunto. In ogni fase della vita ci troviamo in una determinata dimensione, in cui il tempo è tutto. Pensate solo al fatto che, mentre per te che leggi, un determinato periodo di tempo è stato fondamentale, una determinata scelta è stata fondamentale, per me quell'identico lasso di tempo non è significato niente, o viceversa. La questione del tempismo sta tutta lì: certe cose possono esistere solo in un certo periodo. E' difficile accettarlo ed è brutto rendersene conto, ma ciò che siamo adesso non è (più) ciò che eravamo tempo fa o ciò che saremo in futuro. E' un insieme di fattori ambientali di cui il tempo è il più importante, che fa sì che le cose vadano come vanno. Le stesse persone, le stesse situazioni, gli stessi oggetti, non si combinerebbero nello stesso modo se inserite in un altro tempo, con persone a differenti stadi di maturazione ed esperienza. Le persone che sono state importanti nella nostra vita non lo sarebbero state se fossero arrivate troppo presto, non lo saranno più se torneranno troppo tardi.

Queste riflessioni sono significative di ciò che non accade perchè non è il periodo giusto, o di qualcosa che non può tornare perchè non lo è più. I sentimenti hanno una data di scadenza?

lunedì 23 novembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 11^ PUNTATA

Atene era brutta. Puzzava, si mangiava male, le strade erano buie, la gente maleducata. Sembrava un losco paesino lombardo, solo più sporco. Il clima della gita non era tra i migliori: i professori ci stavano alle costole e non sopportavano di darci più libertà di quella concessa nel tragitto dalle camere alla hall dell'albergo (o degli alberghi, visto che la bella idea era stata quella di girare vari posti e passare non più di due notti in ogni albergo). Per essere la tanto agognata gita di quinta, insomma, si stava rivelando una bella merda. In più, il mio rapporto con M., che prima del fattaccio nel viaggio d'andata era comunque cordiale e simpatico, era decisamente degenerato fin dai primi giorni di quella gita. Nonostante la mattina immediatamente successiva lui avesse deciso di fare finta di niente, come me d'altra parte, i buoni propositi, almeno da parte sua, parevano essere andati a far compagnia alle frequentazioni notturne di taluni importanti politici. Un giorno in pullman, al momento di scendere, percorsi il corridoio tra le file di posti e arrivai di fronte a lui. Esitai per farlo passare e farlo scendere prima di me, mentre lui, con elegante e raffinato accento oxfordiano, mi rispondeva "daiii esci, frocio".

Ora, la cosa non mi colpì tanto per il termine, quanto per la persona che l'aveva pronunciato. Non era da lui, semplicemente (sorvolando su tutti i normali rimandi alla sua presumibile repressione, ma non siamo qui per psicanalizzarlo). Un ragazzo di Chiesa, ma comunque sempre educato, anche abbastanza restìo a schierarsi nei momenti di discussione. Quel "frocio", detto così, con disgusto, con rabbia, senza che gliene fosse mai uscito uno dalla bocca, fu una cosa inutile e fuori luogo, che vivetti malissimo. In tutti i sette giorni di gita, nonostante fossimo in camera assieme praticamente sempre, ci ignorammo o parlammo a monosillabi, senza mai toccare nemmeno lontanamente il discorso "prima notte in nave". La gita passò lenta e inutile, fino al ritorno, di nuovo in nave.

Quella volta fummo di nuovo in cabina assieme, con il terzo ragazzo dell'andata e un quarto nostro compagno di classe, non presente all'andata. Ci mettemmo a letto (ognuno nel suo, questa volta), contando di addormentarci entro breve. Parlammo un po', scivolando via via nel sonno. La cosa mi irritò: quella gita che all'andata era stata tanto sconvolgente si sarebbe risolta in un nulla di fatto, esattamente come voleva lui, come se niente fosse successo, come se con un "vai, frocio", lui avesse potuto cancellare quella notte dalla sua testa e, insultandomi, fosse riuscito a ristabilire i toni e i confini che gli erano stati insegnati fin da piccolo. Ma io decisi di non prestarmi a quel giochetto di merda, e passai al contrattacco, tirando fuori dal cappello una delle idee più brillanti (per tempistica) mai avute. Approfittando di un momento in cui ognuno (tranne lui) raccontava determinate esperienze personali o vissute da amici, raccontai agli altri tre una certa storia. La storia parlava di un mio amico e una mia amica, da sempre in buoni rapporti, che una notte si trovarono, per caso, a condividere un determinato momento intimo. Non lesinai i dettagli, fissando dritto nell'oscurità verso il suo letto. Parlai dell'insicurezza di lei, della cattiveria di lui nel fingere che non fosse successo niente, nello sfotterla, mi feci dare dei consigli su come si sarebbero comportati loro in quella situazione. Quella ardita metafora mi fece arrivare a fargli capire che "sapevo che lui sapesse", che capivo ciò che gli passava per la testa e ritenevo imperdonabile il suo comportamento. Dopo quella discussione ci addormentammo.
La mattina dopo gli altri 3 scesero a far colazione, mentre io rimasi in camera a dormire ancora una mezzoretta. Lui fu il primo a tornare in camera, stavolta da solo, portandomi una fetta di torta da sgranocchiare per non salare di netto la colazione. "Con la storia di ieri ti riferivi a noi... cioè, a me, vero?". Mi sorprese, per la prima volta, l'aria risoluta che assunse, tipica di chi non vuole girarci attorno all'infinito. Ne parlammo e tornò a deludermi: secondo lui ciò che accadde sette notti prima fu un mio tentativo, fu tutta una mia responsabilità, mentre lui stava solo cercando di dormire. Fui chiaro: per me non era così e lui lo sapeva bene, ma ben preso la discussione si spostò sul nostro rapporto, mettendo da parte quell'aspetto che, probabilmente, era stato la causa scatenante del mio interesse improvviso.

Il chiarimento fu insperato ma abbastanza inutile; mi lasciò con una sensazione di tempo perso, nulla di fatto. Il viaggio in nave era quasi giunto al termine, tutti eravamo riuniti in zona bar con le valigie pronte per tornare sulla terraferma. Non vedevo l'ora di tornare a casa, ma qualcosa in quel momento toccò le mie corde in un modo che non avrei creduto possibile. M., seduto ad un tavolo del bar, stava parlando ad alcuni miei compagni di alcuni aspetti della sua vita: raccontò del suo rapporto con la religione, della sua storia che andava avanti da più di due anni, della scelta di arrivare vergine al matrimonio e della sua famiglia. Lui, ottavo di otto fratelli, attirò la mia attenzione per il modo in cui parlava dei suoi familiari, con amore, con rispetto, raccontandomi dell'organizzazione di una famiglia numerosa, di tutto un sistema di valori e ideali in cui credeva e per cui lottava. Mentre ora una persona così la manderei probabilmente a cagare con tante pacche sulle spalle per la pietà, in quel momento io, più fragile, vidi in lui qualcosa di mai visto prima.

Tornati a scuola mi trasferii al banco vicino a lui, cominciando a creare un'amicizia davvero disinteressata e bella. Io lui e un altro ragazzo (quello presente all'andata in nave, per intenderci) cominciammo anche a frequentarci fuori da scuola, ritagliandoci uno spazio fisso tutto nostro, sviluppando una vera e propria amicizia. Con l'arrivo della primavera cominciai quindi ad organizzare degli week end al lago, dormendo fuori e passando le giornate assieme. In quelle notti, neanche a dirlo, tutto si ripeteva uguale: volta dopo volta, notte dopo notte, stagione dopo stagione. M. di notte era un'altra persona, mi abbracciava, mi coccolava, mi faceva grattini, mi toccava, avvicinava le labbra alle mie quasi a volere abbozzare un bacio. Di giorno non se ne parlava, io sapevo che parlarne sarebbe stato inutile, che lui avrebbe negato tutto e si sarebbe rifugiato dietro il sempreverde "stavo dormendo". Eppure il rapporto andava avanti, sotto un velo di falsità e di ammirazione crescente, da parte mia. Ogni sera lo guardavo scendere dalla macchina e sognavo di baciarlo, di vivere qualcosa di importante con lui, così amorevole nella vita di tutti i giorni e così codardo nel metterla a tacere quando il sole tornava dopo una notte in cui il corpo non rispondeva più alla testa.

Non sapevo che mi stavo innamorando, che mi ero "innamorato". Lo pensavo tutti i pomeriggi, a casa non aspettavo altro di vederlo collegato a msn (avevo messo una sigla tutta sua per accorgermi anche da un'altra stanza di quando entrava) per parlargli. Poi arrivò l'estate del 2006, l'estate dei mondiali e della mia prima storia. Con una ragazza. Tuttavia l'infatuazione per M. rimaneva intatta, cresceva e mi avrebbe ben presto portato all'autodistruzione.

(continua nella 12^ e penultima puntata)

mercoledì 18 novembre 2009

IL SIMBOLO PERDUTO



Ho finito di leggere la quinta fatica letteraria di Dan Brown, Il Simbolo Perduto. Il libro non è leggero, nel senso fisico del termine dico. 600 pagine per una copertina presumibilmente in gesso e marmo e un totale di 40-50 chili di romanzo. Partiamo dal presupposto che non stiamo parlando nè di Tiziano Terzani nè di Dostoevskij, ma di Dan Brown. Considerando pure che l'ultima cosa seria che avevo letto era il retro della confezione di bagnoschiuma mentre sul water cercavo ispirazione, tutto ciò è notevole. Non sono libri impegnati, semplici romanzi che tra le righe ci ricordano quanto la Chiesa sia un'associazione a delinquere e la religione cattolica sia solo una commistione di credenze pagane e superstizioni medievali. E' un romanzo, quindi il tutto è romanzato, ma molte cose, come fu per Angeli e Demoni e Il Codice Da Vinci, sono vere e verificabili, e riescono a dare alla storia un senso di realismo che, tolta dal contesto, probabilmente non avrebbe. Per il resto è esattamente un romanzo di Dan Brown, c'è il protagonista, un co-protagonista che resta con lui per tutto il tempo e una sequela di 3-4 personaggi che accompagnano a turno il viaggio dei due. Poi di solito uno di questi è in combutta col cattivo e c'è il colpo di scena finale. Fin qui tutto bene, ma le ultime 80 pagine a che cazzo c'entrano? Di sicuro il libro, con meno pathos del solito, veicola un messaggio di fondo più positivo e di speranza, oltre a dare più spunti di riflessione sulla fede e sul senso della vita, ma il finale l'ho trovato un po' stucchevole e riempitivo. Meglio gli altri, tutto sommato.

Voto: 6,5

lunedì 16 novembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 10^ PUNTATA

Quello che mi faceva ridere della gita in Grecia, paventata e pubblicizzata fin dai primi giorni di quell'ultimo, stranissimo anno di liceo, era il modo in cui saremmo andati. Solo un anno prima andavamo in Sicilia in aereo e ora avremmo dovuto andare da una parte all'altra del mediterraneo in nave. Scelta curiosa, che alleviava la paura di quanti, in classe, già si vedevano novelli naufraghi di Lost post-disastro aereo.

Il quinto anno era cominciato come tanti, con lo spauracchio esame di maturità a fare capolino ad ogni momento in cui il professore in questione si sentiva privato della nostra attenzione durante la lezione. Io sapevo, in cuor mio, che avrei pagato tutto: il chiedere di andare in bagno durante i primi 5 minuti di Storia/Filosofia per fare ritorno a un minuto esatto dalla campanella, gli sfottò meno velati rispetto a quelli dei miei compagni rispetto a quella di Lettere e perfino l'arroganza con cui mi ponevo nei confronti del prete durante l'ora di religione. A mio discapito c'è da dire che pensavo che il grado in più di onestà che mettevo rispetto ai miei compagni sarebbe stato perlomeno preso in considerazione da una soggettiva più umana e meno scolastica-vendicativa.
In quel periodo la mia attività di blogger ebbe effettivamente inizio: dopo i primi mesi di rodaggio estivo, entrai nel pieno della dipendenza da blog, sfogando su internet ciò che ho sempre amato fare, scrivere. Cercavo di rendere nei miei post gli avvenimenti della mia giornata (rileggermi ora fa ridere e mette una malinconia indescrivibile), aggiungendoci scampoli d'ironia da perfezionare.

Fu l'anno in cui mi decisi a cominciare a pensare alla patente. Il primo scoglio, naturalmente, era rappresentato dall'esame di teoria. Esclusa l'ipotesi di seguire delle lezioni per qualcosa che riguardava mero studio e continui esercizi sulle schede fac-simili, comprai un libro da studiare e il famoso eserciziario su cui fare le simulazioni di quello che sarebbe stato il testo. La cosa inizialmente mi esaltò, mi misi a fare esercizi su esercizi (pure in classe, per la gioia dei professori sopracitati) e mi convinsi che lo scoglio dell'esame di teoria sarebbe stato superato agevolmente. Arrivò il giorno del test. Mi preparai, agitato e tremante, controllando di avere tutti i documenti e le carte richieste, accompagnato da mio padre. Seduto al banco, ascoltai le infinite raccomandazioni dell'esaminatore, ricevetti il foglio e cominciai a risolvere i quiz a cui ero abituato da 2 settimane in cui, praticamente, non avevo fatto altro. Questa è facile, questa pure. Ok su questi son tranquillo. Rimasi, su trenta crocette, indeciso su circa cinque, ma decisi di compilarle senza aspettare inutilmente la fine del tempo concesso. Arrivò il momento della correzione. La penna cominciò a segnare gli errori. Uno. Due. Tre. Cazzo, su quelle ero abbastanza sicuro. La penna arrivò a metà foglio. Quattro. Porca troia, ancora uno ed è finita. Più nulla fino alla fine delle domande. Poi, implacabile, sporcò il foglio altre due volte. Cinque, sei. Sei errori, bocciato. Rimasi interdetto, presi i miei documenti e me ne andai, urtando con rabbia la ragazza festosa che aveva appena avuto buone notizie. Mio padre, manco a dirlo, accentuò la rabbia e la delusione che già provavo nei miei confronti, urlandomi di tutto.
Il mese dopo potei riprovarci, con la sicurezza di un intero libro di esercizi concluso con una media invidiabile di 1 errore e mezzo a scheda. Mi preparai, infreddolito e terrorizzato, facendomi di nuovo portare da mio padre. Quella volta, tuttavia, commisi un errore imperdonabile: saltai un passaggio. Quello dei documenti. Arrivato davanti alla porta della motorizzazione, mi tastai le tasche accorgendomi con orrore che non avevo preso il portafoglio, e, con esso, la carta d'identità. Ci misi due-tre minuti a trovare il coraggio di dirlo a mio padre. Qualsiasi richiesta di deroga o strappo alla regola fu negato da parte degli esaminatori, mia madre non se la sentì di fare una corsa ai limiti del legale per portarmela e rimasi, ancora una volta, a bocca asciutta. Inutile dire che la delusione e l'irritabilità raggiunse livelli immensi, mentre mio padre riusciva a rendere tutto più difficile sottolineando in continuazione l'errore e non mancando di ricordarmi quanto fosse deluso da me e dalla mia superficialità.

Fu con questo spirito che partii per la Grecia, per quella che doveva essere la famosa "gita di quinta". Partimmo verso mezzogiorno, per essere al porto di Ancona poco prima di cena. Da lì, l'imbarco per lo stato ellenico. La partenza, in nave, fu tranquilla. La sera le varie classi coinvolte si riunirono al bar, per qualche bicchierino concilia-sonno, mentre le persone più sensibili cercavano di vomitare il meno possibile all'interno delle rispettive cabine. Io, fortunatamente, non avevo mai sofferto il mal di mare. Mi ritrovai in camera con M., un compagno di classe della "cinquina" proveniente da un'altra sezione due anni prima, un altro che, come lui, conoscevo solo dal terzo anno, e uno di un'altra sezione, che conoscevo abbastanza. Noi tre (della nostra sezione) andammo a dormire poco prima della mezzanotte, scherzando festosi tra le cuscinate, i dispetti e le finte lotte libere che si scatenano sempre in quei momenti, mentre il quarto ragazzo rimaneva ancora disperso nei meandri della nave. I quattro posti letto erano messi a castello, rispettivamente due contro una parete e due contro l'altra, lasciando poco spazio per muoversi in quell'angusta cabina. Loro due avevano scelto i letti bassi, mentre io e il ragazzo dell'altra sezione avevamo preso quelli alti. Finita la lotta, mi misi sul letto di M., con lui a fianco, fissando l'altro ragazzo e facendogli segno di aspettare il momento opportuno per attaccare M. e proseguire in quei giochi pre-sonno. Quel momento opportuno, tuttavia, non arrivò. Tutti e tre ci addormentammo nell'attesa, a luci spente, crollando di colpo. Tuttavia, io ero rimasto nel letto con M.
Mi svegliai un'oretta dopo, con la testa molto vicino alla sua, accorgendomi di dov'ero rimasto. La cosa non mi dispiacque. Pur non essendo un adone, M. era l'unico con un fisico ancora da "ragazzo", come me, in tutta la classe, mentre tutti facevano già grande sfoggio di fisiconi, altezze improponibili e barbe incolte. Rimasi lì, finchè lui, nel sonno, si voltò verso di me, mettendomi un braccio attorno alla vita e, di fatto, abbracciandomi. Andammo avanti così, in un'altra mezz'ora circa di sonno travagliato, finchè mi svegliai e ci trovai ancora più vicini di prima, con le gambe intrecciate. La vicinanza mi piaceva, il mio corpo reagì e cominciai a sragionare. Spostai un ginocchio, accorgendomi che anche lui era eccitato. Il ragazzo, fidanzato da anni con una coetanea del suo oratorio, centesimo di cento fratelli, fervente ciellino e fedele servo del signore e della Chiesa Cattolica, era ora nel letto con il sottoscritto, in un abbraccio inspiegabilmente colmo d'eccitazione. I suoi movimenti continui mi confermarono che nemmeno lui stava davvero dormendo. Girato completamente verso di me, cominciò di colpo a strusciarsi contro la mia coscia. Lasciai fare (figurarsi, non sono sgarbato). A forza di girarci e rigirarci, diedi per scontato che il ragazzo aveva dimostrato una certa (inspiegabile) disponibilità, e tentai il tutto per tutto. Gli accarezzai la pancia e scesi, all'interno dei pantaloni del pigiama. Per i primi momenti mi lasciò fare, poi mugugnò e si girò di spalle, concludendo così il mio approccio. Decisi di non tentare oltre la sorte, nonostante nelle restanti ore si sarebbero susseguiti altri abbracci e carezze da parte di entrambi. Quando entrò il quarto inquilino della camera, poi, barcollante per l'alcool, M. si staccò di scatto, confermandomi che era pienamente sveglio e consenziente. Nessuno degli altri due inquilini di quella cabina notò niente, e noi due ci svegliammo la mattina dopo come se nulla fosse.

Al sorgere del sole, la sveglia ci informò che avevamo raggiunto la Grecia ed eravamo pronti a sbarcare. M. non mi calcolò particolarmente, andammo a far colazione, raccogliemmo le nostre e cose e risalimmo sul pullman, senza praticamente rivolgerci la parola. Come dovevo comportarmi? Fingere indifferenza, indagare su una sua eventuale omosessualità taciuta? La risposta me la diede lui, nei giorni seguenti di quella gita orrenda. Anche se qualcosa non tornava...

(continua)

sabato 14 novembre 2009

NON MI PIACE FARE IL PRELIEVO DEL SANGUE PERCHE':

  • La sveglia è fissata per orari sulla cui esistenza ho sempre dubitato... tali "sette di mattina", "otto di mattina", che credevo fossero un'invenzione delle multinazionali del caffè e, invece, ho appurato che vengono davvero segnalate dagli orologi.
  • Mi piscio addosso. Il tutto nasce da un episodio traumatico della mia infanzia, in cui io, piccolino, feci pipì a casa, appena sveglio, trovandomi senza risorse idriche al momento in cui dovevo fornirle in ospedale. Il tutto corredato da mio padre, fuori dal bagno, che urlava in mezzo alle persone in attesa "cazzo, sbrigati, fai pipì, muoviti cazzo" e io, spaesato e in ansia, che me lo spremevo furioso ricavandoci anche un rene e una scarpa da ginnastica ma nemmeno una goccia di pipì. Ci misi due ore. Per evitare repliche, la tengo da secoli prima, arrivando al prelievo con l'aria rilassata di chi sta per rapinare una questura dei carabinieri.
  • Me ne tolgono a litri. E' triste vedere tutti quelli attorno a me che tornano dal prelievo con una o due boccette, mentre a me viene chiesto se per portarle al bancone ho bisogno di un montacarichi o mi accontento della carriola. Di solito l'infermiera comincia a prelevarmelo con un festoso discorso per distrarmi, ma dopo aver parlato dell'università, delle malattie, della gioventù, del tempo, del governo, della sua famiglia, del giorno del suo diploma, del fatto che il suo lettore dvd non funziona più e anche della perplessità sulla vittoria di Marco Baldini alla Fattoria 4, di solito cala il gelo per i restanti venti-venticinque minuti.
  • Le insinuazioni sulla mia età. Era già fastidioso a 8 anni sentirmi dire "ma cammina già questo campioncino" o "ma senti che bravo che è a parlare", dava fastidio sentirsi dire a 18 anni che loro coi bambini usano la farfallina per non fargli sentire male, ma non è il massimo neanche a 22 sentirsi consigliare di "andare a scuola, dopo il prelievo, che i primi anni di liceo non si può cominciare a fare assenze".
  • E' buio, fa freddo e uno non può neanche far pipì o la colazione. Non so cosa mi vesto a fare, sfatto per sfatto la prossima volta vado lì direttamente in pigiama.
  • La gente in coda vuole fare salotto. Idiota, ti sembra che siamo in coda per il concerto della Pausini o per farci prelevare il sangue? Di cosa dobbiam parlare, dell'RH positivo e di quella volta che uno è morto perchè gli han bucato l'aorta? Lasciami in pace, che è notte fonda.
Tornato a casa, ho fatto colazione e mi sono riaddormentato finchè è arrivata la mattina. Le 11.45, per essere precisi.

lunedì 9 novembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 9^ PUNTATA

Vi avevo lasciato con un Ale spaesato, capace di imprese al limite del lecito, al limite dell'etico, ma terrorizzato di fronte a un'accettazione realistica della propria omosessualità. Diedi il benvenuto all'estate del 2005, l'ultima "scolastica", visto che l'anno successivo sarebbe stato quello della maturità: l'ultima estate piena, di 3 mesi, come fin da bambino ero abituato a vivere. Quell'estate al lago tutto proseguiva identico agli altri anni, tra sessioni di piscina, partite di tennis e serate tutti insieme.
Fu al termine di una partita di tennis che lo vidi. Uscii dal campo sudato e stravolto, mi avviai verso casa per una doccia quando la mia faccia assunse la tipica espressione "equestofigodellamadonnaaa?". Era alto, coi capelli tendenti al biondo e tutti sparruffati, indossava una tamarrissima maglietta rosa scollata a V (na cosa inguardabile), aveva un sorriso da stendere un elefante adulto e camminava verso di me. Essendo il lago un posto dove, bene o male, ci si conosce tutti, il mio primo pensiero fu che fosse l'ospite di qualcuno. Senza lasciarmi andare a emozioni compromettenti tipo il lancio selvaggio delle mutande ululando, tirai dritto.
Fu allora.
<<>>
Eh? Ma che fa? Mi saluta? Oddio. Secondi di interminabile silenzio in cui mi ero arrestato di colpo assumendo tutte le colorazioni mondiali. Penso che il mio "ciao" di risposta avesse più l'aspetto di un "Ghaw" urlato in due tonalità diverse. Concluso quel proficuo scambio di saluti, andai a casa.

Parlai al "gruppo" del lago di quella nuova figura, presumibilmente coetanea, spingendo sul tasto del "finalmente un nuovo ragazzo della nostra età" e omettendo tutti i particolari sul fatto che fosse uno degli individui più fighi che avessi mai visto. Lo rivedemmo in piscina, qualche giorno dopo, giocare con due ragazze, le sue sorelle. Lo rivedemmo anche una sera, insieme sempre alle sorelle e altri ragazzini più piccoli. Mi feci avanti io, autoinvestitomi del ruolo dal gruppo che, francamente, se ne sarebbe anche sbattuto le palle del nuovo elemento. "Ciao, senti vieni con noi, che siamo più vicini alla tua età, no?".
Entrò nel gruppo e gli altri si presentarono e gli chiesero l'età.
<<14!>>
Vedete? Ve l'avevo detto che aveva la nos...tra...
QUATTORDICI?
Sì, era incredibilmente e assurdamente del 1991.

Avevo appena compiuto i diciotto, ero finalmente maggiorenne. La cosa non aveva comportato grandi sconvolgimenti visto che l'affare patente era rimandato di fatto all'anno successivo. Mi ero giusto cominciato a firmare le giustificazioni e le verifiche da solo, cosa che mi evitava l'iter di dover aspettare un 7 per portare a casa il 5 preso due settimane prima.
Io diciottenne, e questo quattordici? Voglio dire, fossimo andati in giro a fare un sondaggio tra la gente dicendo "uno di noi due ha 14 anni e l'altro 18", credo che giusto una persona su mille avrebbe azzeccato il giusto abbinamento. Quella sera passai la serata a osservarlo, divorandomelo davvero con gli occhi. Aveva un sorriso che da solo valeva il prezzo del biglietto (di cosa, non so), due occhi chiari meravigliosi e una tenerezza mista a timidezza che me lo faceva davvero adorare.
Non so se fosse una sorta di colpo di fulmine, so che tutte quelle serate le passai a guardarlo, fisso. Il problema era che anche lui guardava me. Passavamo le serate a guardarci, praticamente un gioco, ci guardavamo anche quando parlavamo con altri, non perdevamo una singola espressione dell'altro. Cominciai a credere che ci fosse qualche possibilità di andare oltre.

Furono tanti i momenti in cui mi diede dei segnali, più o meno forti. Capitò una sera di guardare tutti assieme delle foto sul telefonino. Io tenevo il telefonino e lui, sulla destra, si appoggiò di peso sulla mia gamba e mise la testa accanto alla mia. Sentivo perfino il suo respiro. Mi tratteneva dal baciarlo e sbatterlo di peso sul tavolo da ping pong giusto la presenza di un'altra decina di persone, che per giunta non sapeva di me.
Un giorno, dopo la piscina, verso l'ora di pranzo, feci con lui la strada per scendere a casa. Lui tuttavia era sveglio da poco e voleva ancora fare il bagno. Lo accompagnai fino a casa sua e feci per salutarlo e andare a pranzare, ma mi bloccò. "No dai, vieni con me in piscina". "No guarda, non posso proprio... è già tardi". "Ma dai... perfavore... te lo chiedo io". Disse questa frase accompagnandola con un mezzo sorriso e una tenera espressione degli occhi. Vedendomi ancora perplesso, aggiunse "fallo per me", rendendo pieno il suo sorriso. Mi sciolsi completamente, rimasi con lui in piscina beccandomi un quarto d'ora di cazziatone dei miei genitori per il ritardo.

Ero dell'idea che le ipotesi potevano solo essere due: o anche lui era cotto, o mi stava immensamente prendendo per il culo. Però, poteva davvero un quattordicenne essere così furbo e così "avanti"?
Una sera di pioggia rimanemmo solo io e lui nel residence. Dopo un po' di chiacchiere (e di sguardi), fu l'ora di tornare a casa. Ma pioveva, ed era buio. "Accompagnami fino a casa", gli chiesi. Tentennò, ma rifiutò. Mi portò però fino a casa sua. Io, illuso che fosse il coronamento del mio colpo di fulmine, ricevetti solo un ombrello per evitare di tornare a casa fradicio. "Che stronzo, mi sta solo prendendo per il culo, questa era l'ultima volta". Questi, i miei commenti (pure a voce alta, per esorcizzare la paura del buio) fino all'arrivo a casa. Mi scrollai di dosso l'acqua, feci per andare a dormire quando suonò il cellulare. Era lui, una sua chiamata. Risposi.
"Pronto?", cercando di far trasparire un'aria più stupita che sognante.
"Ohi... sei arrivato? Volevo solo sapere se stavi bene"
Ora, per la strada da casa sua a casa mia, vi posso assicurare, non si affrontano mostri a tre teste, maremoti, uragani e stupratori seriali. Semplicemente pioveva e c'era buio, ma non è mai morto nessuno, in quel residence. Ero uno stupido sognatore a continuare a pensare ci fosse sotto qualcosa?

Probabilmente no, ma non importa. Perchè non successe nulla. L'estate si concluse senza che lui facesse nessun passo reale e fisico verso di me. Non ci sentimmo durante l'autunno, l'estate dopo era diverso. Probabilmente il primo anno di liceo gli aveva chiarito la confusione che aveva in testa e l'aveva trasformato nel perfetto etero che doveva essere.

Sempre quell'estate, invece, colsi l'occasione per il coming out a Betta. Durante la gita di pochi mesi prima le avevo rivelato di aver scoperto l'omosessualità di un suo compagno di classe (grazie al maltrattato S., suo ex), ma le avevo impedito di farmi domande sul "come" l'avessi scoperto. Era arrivato, però, il momento di dirle tutto. La prese bene. No, bene non è la parola giusta, in effetti. La prese male, in realtà. Alle mie parole seguì un lunghissimo silenzio, e poi alcune frasi che, abbastanza demoralizzate, raggranellavano nuove informazioni su di me e su ciò che non le avevo raccontato. Era infastidita, trovava assurdo che non le avessi ancora detto niente, che le avessi raccontato tutte quelle bugie, che le avessi nascosto troppe cose. Il dialogo finì male, mi tenne il broncio per una buona settimana, mi disse che per lei era stata dura sapere in due momenti così ravvicinati prima del suo amico e poi di me, che non era pronta, che si sentiva presa in giro. Ci mettemmo qualche giorno a ritrovare il nostro equilibrio e a tornare come prima, e la cosa mi fece fare un piccolo passo indietro. Evidentemente non era così scontato che tutti la potessero prendere bene, evidentemente neanche io dovevo accettarla così a cuor leggero, nonostante cuore e ormoni ormai andassero in un'unica direzione.

Finita l'estate, c'era da pensare al liceo. Il quinto anno sarebbe stato pazzesco e assolutamente inaspettato. In vista della maturità, in vista dell'anno che sarebbe stato, dell'estate che mi avrebbe cambiato la vita. Tutto cominciò con l'ultima gita, quella in Grecia...

(continua)

giovedì 5 novembre 2009

SURPRISE SURPRISE

Più che della serata in sè, vorrei parlare della sorpresa finalmente riuscitissima a Seba.
Sono riuscito ad ottenere i due biglietti per X Factor all'ultimo momento (martedì sera, per intenderci), alchè l'ho convinto a passare il mercoledì notte a Milano - dove ho la casa - per stare un po' assieme. Sempre andando avanti a scuse, sono riuscito anche a strappare la possibilità di andare con la sua macchina (che ci sarebbe poi servita per arrivare fino a Via Mecenate).
Abbiamo così fatto l'aperitivo con Fede, un mio compagno di università [gay] in modo che i due finalmente si potessero conoscere (e inutile dire che sono stato allegramente bersagliato da entrambi per tutta l'ora di aperitivo). Per fortuna Fede è stato un buon attore e mi ha aiutato nella seconda fase del piano: saremmo dovuti andare a recuperare per lui un libro a una decina di minuti di macchina da lì. Per farla breve Seba non ha sospettato niente e mai, nè quando ho chiamato il tizio dei biglietti per dire che saremmo arrivati con 10 minuti di ritardo, nè quando siamo arrivati davanti a un camion Rai. "Ti aspetto qui mentre prendi il libro?". Adorabile, avrei potuto trascinarlo fino allo studio di X Factor senza che capisse dove l'avevo portato.

"Te l'avevo detto che stasera ci guadavamo X Factor assieme" :)

lunedì 2 novembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 8^ PUNTATA

4 Giugno 2007.
"Non ci posso credere, sono nella Scuola". Percorsi il corridoio che avevo visto tantissime volte in televisione, entrai insieme agli altri ragazzi in quella universalmente conosciuta come "sala relax". Una ventina di ragazzi, alcuni seduti ad un tavolo, altri in giro per la stanza, parlavano ad alta voce, altri provavano, altri facevano stretching. Io mi guardavo attorno, incredulo. Sul muro campeggiavano i nomi dei ragazzi dell'anno prima, divisi in due squadre: delta e gamma. Fissai i muri, andai in bagno e cominciai a sentire tutta la tensione del luogo dove mi trovavo. Eppure, il mio pensiero volò a lui. Gli telefonai. "Non ci crederai, sono nella scuola". "Grande!" rispose lui, facendomi capire di non essere particolarmente libero di parlare. "Ma ti disturbo?", poi decisi di cambiare domanda, passando all'unico motivo per cui l'avevo chiamato, all'unico pensiero che avevo in quei momenti: "vi siete baciati?". "No - rispose lui - Non ancora". Dopo poco lo salutai sollevato, baciai il suo braccialetto e con poca convinzione tornai al presente. "Sei nella scuola di Amici, Ale, rimani concentrato su questo".

La primavera del 2005 mi aveva regalato gioie e dolori. Il lento ritorno al tepore climatico che preferivo si accompagnava con l'addio ai sogni di gloria con P. Dopo averlo sostanzialmente preso in giro (ed essermi preso in giro da solo), lo lasciai andare, conscio che la cotta mi sarebbe passata, sebbene a fatica, col passare del tempo. Continuai a guardarlo durante le ricreazioni, a salutarlo in situazioni più o meno casuali, sebbene consapevole che la mia "copertura" ormai saltata non avrebbe concesso nulla di più.
Nel frattempo, S., il ragazzino a cui, senza volerlo, avevo sconvolto la vita costringendolo al coming out coi suoi, cominciò a farsi più insistente, sia su msn che tramite cellulare. Era strano, mi faceva piacere sentirlo, mi mettevano di buonumore i suoi messaggi del buongiorno, quelli teneri. Stessa cosa, tuttavia, non potevo dirla delle sue (legittime) insistenze riguardo al primo incontro. Finchè il rapporto rimaneva lì, all'ombra di un secondo numero di cellulare e al riparo di uno schermo si poteva fantasticare, se si parlava di un incontro in carne ed ossa andavo totalmente nel panico. Seppure stessi snocciolando il mio lato gay, ero ben lontano dall'accettarlo: la convinzione era che l'unica àncora di salvezza sarebbe stata una fidanzata e, in futuro, una moglie. L'idea di uscire per la prima volta con un ragazzo, quindi, non veniva neanche presa in considerazione. Un giorno, però, S. insistette e, di testa sua, prese la situazione in mano, fissando un appuntamento per il pomeriggio seguente. La paura s'impadronì di me. "Guarda che non è detto che venga" l'assicurai, serio. "Anzi, è praticamente sicuro che non verrò, ho anche un altro impegno".
Niente da fare, il pomeriggio dopo, all'ora concordata, lui cominciò a chiamarmi. E io, manco a dirlo, ero a casa. Ignorai le telefonate, salvo mandargli un sms qualcosa come centomila ore dopo con un innocente "Ehi, mi hai cercato?". Mi chiamò e, a ragione, mi sbranò vivo, nonostante io, cominciando probabilmente a covare quel simpatico carattere del cazzo che tutt'ora mi trovo addosso, gli risposi a tono, dandogli la colpa di non avere voluto capire che non sarei andato e augurandogli una morte atroce e dolorosa. Lo stronzo che aveva preso possesso del mio corpo, naturalmente, se ne sbattè le palle del fatto che S. ci potesse essere rimasto male, considerando di vitale importanza sbarazzarsi di lui.
Ho risentito S. solo due anni dopo, in occasione di un aperitivo a quattro un po' improbabile. Mi odiava come se il fattaccio fosse accaduto poche ore prima. Sono passati quasi cinque anni e S. mi malsopporta tutt'ora, tant'è che i nostri rapporti sono limitati a un "ehi come va come non va?" una volta all'anno. Come biasimarlo?

Conobbi Ivana, nonostante fossimo in classe assieme, solo l'ultimo giorno della seconda liceo. Non nel senso che mi presentai, chiaramente; nel senso che non avevamo mai avuto l'occasione di rivelarci l'un l'altra una nostra grande, enorme, comune passione. Non lo ricordo l'approccio esatto, so solo che fu durante quella festa lunga 5 ore che segna l'ultimo giorno di fatica prima di un'estate di 3 mesi. "Anche tu canti?" "Sì, anche tu?" "Sì". Sembra niente, fu l'inizio di un tutto. Quella mattina cantammo per la prima volta pezzi di "Vivo per lei", il duetto che avremmo provato centinaia di volte, senza mai imparare a farlo davvero bene, negli anni a venire. Fu un rapporto che mi arricchì, umanamente e, se si può dire, artisticamente. Trovare un'altra persona che ama il canto e lo trova un hobby più profondo del mero vincolo del "sotto la doccia", trovare un'altra persona che mi capiva nel dire che non riuscivo (come non riesco) ad ascoltare una canzone senza cantarla, mi fece sentire meno solo, in quella sfaccettatura importante di me. Fu un'amicizia che crebbe mese dopo mese, anno dopo anno. Lei veniva a casa mia, cantavamo, imparavamo pezzi, ci davamo consigli e voti, imitando le sfide che vedevamo in tv, sognando di andare ad Amici, di poter usare quelle voci per diventare qualcuno.
La prima occasione importante fu un concorso provinciale, di cui lei lesse la pubblicità, che ci vide iscritti in coppia. Scegliemmo "Vorrei incontrarti tra cent'anni", di Ron e Tosca, unico duetto che si adattava sia alla mia sia alla sua voce. La sera del concorso provai l'emozione più controversa di sempre. Prima di salire sul palco attendevo con l'ansia di chi sa che sta per essere interrogato ed è impreparato. Al momento di esibirmi provai quella cosa che avrei cominciato a domare e ad amare negli anni seguenti. Quell'adrenalina sciolta, che si impadroniva di braccia e gambe, che dava calore, e faceva tremare. Come sulle montagne russe, ma diluita nell'arco di cinque minuti. In mezzo a quella sensazione, bisogna esibirsi.
Andò abbastanza da schifo, manco a dirlo. Nella nostra semifinale passavano i primi tre, e arrivammo tipo sesti, su una dozzina di cantanti, più o meno bravi. Non avremmo più fatto concorsi in coppia, ma non ci saremmo mai più separati. Da soli, insieme (entrambi in gara per i fatti nostri), durante saggi, prove, provini, gare. L'altro c'era sempre, e c'è sempre. Io sono orgoglioso di ciò che lei è diventata, sia a livello artistico che come persona. Lei è sempre stata contenta quando superavo un provino, anche quando lei rimaneva fuori. C'è e ci sarà un grande rapporto, fatto di rispetto, orgoglio e maturità. E soprattutto reciproco sostegno, anche quando l'altro è a pezzi e ha bisogno di sentirsi dire certe parole.

Quell'estate il colpo di fulmine si fece sentire in un modo assurdo, sfacciato e un po' tiraculo. Fu l'estate di un coming out. L'unico che, paradossalmente, fu preso male, senza che io me l'aspettassi.

(continua)

domenica 1 novembre 2009

UP - 3D


E parliamo di questo Up, che ha conquistato critica e pubblico come solo un film d'animazione della Pixar, ultimamente, riesce a fare. Ammettiamolo, questi geniacci riescono sempre ad arrivare al cuore dello spettatore. Ci riuscirono (e alla grande) con Wall-E, l'unico film a cui avrei mai dato 10, se in quel periodo fossi stato attivo con il blog, ci sono riusciti bene anche con Up! O perlomeno hanno azzeccato il mio gusto. Non so perchè, infatti, ma prendi due persone, fammele vedere da quando erano giovani a quando erano vecchie, fammi vedere la loro vita insieme, fammeli vedere fragili, anziani e malati ma ancora innamorati, fammi vedere il tempo che passa, uno dei due che muore e l'altro che ricorda i bei tempi andati, e sono un fiume di lacrime. Sul serio, fossero due sconosciuti, due razzisti seviziatori di animali e bambini, due scambisti poligami, non importa: con quegli ingredienti in pochi minuti sono da raccogliere col cucchiaino. E' capitato anche ad Up, che ha inoltre il pregio, come ho letto da qualche parte su Facebùk, di "farti passare dalle risate alle lacrime". Concordo. Il 3D, per la seconda volta consecutiva, non mi ha convinto, e comincio a credere che sia un problema della struttura della multisala. Tra i valori aggiunti che rendono questo film "grande", secondo me, le musiche, che mi hanno ricordato a tratti la colonna sonora di un altro must tra i miei film preferiti: Amelie. Anche il cortometraggio "Partly Cloudy", trasmesso prima di Up, è un piccolo gioiello in casa Pixar.

Voto: 9