lunedì 30 novembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 12^ PUNTATA

Domenica 9 Luglio 2006. Ore 22.30.

Sto gridando contro un maxischermo con tutte le mie forze. “Francese di merda, sei un figlio di puttanaaaa, devi morireeeeeee”. No, seriamente, a guardarmi da fuori sembrerei quasi un eterosessuale. Sto per vedere la prima coppa del mondo italiana della mia vita e ancora non lo so. Mischio sudore e sofferenze in una serata che è a dir poco magica. Soffoco nel tifo e nelle grida i pensieri che mi hanno accompagnato in piazza, nel risveglio della mattina e nei giorni precedenti. È nella mia testa e non riesco a farne a meno, né di lui né delle sue incertezze.

Giugno 2006.

La quinta liceo finì così com’era cominciata: un’inutile paura e la delusione per un qualcosa di meno preoccupante del previsto. Mi trovai a ridosso degli esami indietro come non mai: recuperai l’intero programma di filosofia dei tre anni in una giornata, studiando su un libricino minuscolo passato per non so quante mani e presumibilmente scritto di pugno dallo stesso Sofocle. Ricordo che passai circa una decina di ore su quel libricino, portandomelo anche nella vasca da bagno per non perdere tempo, uscendone totalmente rincoglionito. Reduce dal ripassone generale di letteratura italiana di due giorni prima, finii per dividere i filosofi così come avevo fatto per gli autori, ossia in “buoni e cattivi”, “comunisti e fascisti”, “pessimisti e ottimisti”, “allegri e tristi” per riuscire a dire almeno due-tre concetti generali su tutti. La tesina mi piaceva, ma era stata una sommaria scopiazzatura generale di vari siti internet e un abile montaggio di figure colorate tra una pagina e l’altra. Arrivai, quindi, al tanto temuto esamone con qualche paura e molte cose non chiare in testa.

L’esame di maturità arrivò veloce, insieme alla tanto agognata patente e, ben più importanti, ai Mondiali di Calcio in Germania. Per la prima andai dritto, dopo le prime due false partenze, superando la teoria al terzo tentativo (con un solo errore) e cominciando a prendere lezioni di guida presso la mia amica Elisa, mio padre e l’autoscuola sotto casa. La prima volta in assoluto in cui guidai una macchina, infatti, fu proprio in un parcheggio fuori dalla scuola di canto con Elisa, che si fidò a darmi in mano la sua Renault Twingo benzina per insegnarmi il gioco frizione, ossia il meccanismo più difficile da imparare per chi vuole cominciare a guidare. Le esperienze con mio padre non furono particolarmente (da me) apprezzate, invece, e si limitarono a un paio di tentativi in zona industriale. La scuola guida, naturalmente, era obbligatoria. L’istruttore era un uomo di mezz’età molto serioso, rasato e nostalgic-nazi, era buono e amichevole ma ebbe il buon senso di terrorizzarmi urlando quando, gasato dai primi chilometri macinati, ci presi gusto e, con un ritmo sostenuto, bruciai uno stop. Sarà un caso, ma da quel trauma ad oggi non ho più bruciato uno stop.

In Germania, negli stessi giorni, l’Italia cominciava a giocarsi i suoi Mondiali, superando il proprio girone preliminare e approdando ai turni ad eliminazione diretta. Vivevo quelle partite con un pathos e un calore inspiegabili, tanto era cocente la delusione di quattro anni prima contro la Corea. La semifinale, contro la Germania, la vidi a casa di M. Già, io e M. (con il terzo ragazzo sempre in mezzo, naturalmente) eravamo diventati sempre più amici, avevamo colto l’occasione per preparare assieme gli esami e avevamo iniziato a coltivare l’abitudine di uscire assieme almeno una volta alla settimana, nonostante si abitasse decisamente distanti. Andai da lui per l’ora di cena, mangiammo assieme e finalmente ebbi uno scorcio della sua tanto decantata famiglia. In quello che era un porto di mare, più che una casa, si alternavano genitori, nonni e fratelli, immagini sacre e crocifissi pacchiani alle pareti. Io guardavo ammirato, lui parlava sempre bene dei suoi parenti, mi aveva affascinato fin dal giorno del ritorno in nave, era quasi come se mi fossi innamorato dell’amore che traspariva dalle sue parole. Come se mi fossi cotto per un ragazzo che dimostrava tanta capacità di amare. La semifinale, naturalmente, fu al cardiopalma. Esultammo e ci abbracciammo, al gol decisivo di Grosso e a quello conclusivo di Del Piero. L’Italia era in finale, io ero a casa del mio compagno di classe che avevo ignorato per due anni e mezzo e di cui ora ero completamente cotto, che a volte dimostrava di adorarmi, altre mi allontanava, altre ancora ricambiava ogni forma di mia attenzione.

La finale, qualche giorno dopo, decisi di vederla in una delle piazze della città, in compagnia di Caro e di due altre amiche. Sì, so che la cosa già smonta la tesi del “tifoso etero” buttata lì all’inizio, ma assicuro che in quella calda serata di luglio non c’era davvero nessun’altra soluzione possibile. L’andazzo della partita, d’altra parte, è storia nota. I miei festeggiamenti, praticamente, altrettanto. Le urla e la gioia di quella notte infinita furono incontenibili e generali, vidi una città in festa e centinaia di persone che se ne fregavano dei loro pensieri, delle loro vite. Cercai di fare altrettanto e mi tolsi M. dalla testa. Almeno per quelle poche ore che mi erano concesse.

I voti dell’esame di maturità uscirono qualche giorno dopo. Fu un 67, senza lode e senza infamia. Confermò il mio trend scolastico, senza grossi picchi. Venni a sapere successivamente che alcuni professori erano riusciti a vendicarsi, in fase di riunione, per alcuni miei atteggiamenti che avevano dovuto forzatamente ingoiare nei passati cinque o tre anni. La cosa non mi turbò granchè, nell’orale non avevo certamente brillato per acume facendo scena muta alla domanda di biologia e non spiccando in quella di fisica.

Il trentun luglio portai a termine l’altro compito che l’estate mi aveva messo di fronte: la patente. L’istruttore mi preparò con le solite inversioni a U, parcheggi a S, giravolte a Y e chi più ne ha più ne metta, poiché conosceva il papabile esaminatore e decise di prepararmi in vista dell’esame che avrei ricevuto. Il giorno stesso dell’esame pratico mi accolse spaventato, dicendo che l’esaminatore era cambiato, questo non voleva vedere grandi manovre ma persone sveglie, che sapessero guidare in modo fluido nel traffico. Capii la sua apprensione e il suo smarrimento per questo cambio all’ultimo minuto, ma la cosa non mi turbò. Ero esattamente a conoscenza di chi sarebbe stato il mio esaminatore e di come si sarebbe svolto l’esame. Il fatto che una mia amica fosse fidanzata con uno che lavorava in motorizzazione aveva aiutato, e bene. Feci l’esame, l’esaminatore mi fece fare circa un chilometro di strada dritta, una rotonda e altri cento metri, facendomi accostare e dandomi una patente abbastanza scandalosa. Sì sì, lo so, non si fa, pazienza.

Festeggiai chiamando M., organizzando una serata insieme per brindare alla mia patente, crogiolandomi nel fatto che finalmente avrei potuto guidare io. Un’altra serata assieme, un’altra occasione in cui il mio cuore batteva per lui e si prendeva sempre di più. Cominciavo a non poter più fare a meno di lui.

Quell’estate al lago fu diversa da tutte le altre. Marco e Betta arrivavano più tardi del solito, intorno alla metà di agosto, mentre io mi barcamenavo tra i ragazzi presenti, tentando di non farmi rovinare l’estate. Fu in quei giorni di mezza solitudine che conobbi I., una ragazza vicina di casa al lago fin dall’anno precedente, simpatica e “alla mia portata”, con la quale presi a passare tante serate in quei primi giorni d’agosto. Avevamo qualcosa di simile, qualche irrequietezza che ci avvicinava, ci faceva confidare. Nessun passo avanti, ma si percepiva nell’aria che qualcosa poteva succedere. Il “qualcosa” accadde la notte di Ferragosto, complici i fiumi d’alcool che, come ogni anno, scorrevano abbondanti. Passammo la serata a baciarci e, in qualche modo, suggellammo un tacito patto secondo il quale saremmo stati “assieme” almeno per quello scampolo d’estate. Non so perché lo feci, non so cosa volevo, non mi piaceva, ma la mia coscienza mi imponeva di trovarmi una ragazza, di farmela piacere, di starci assieme.


Qualche giorno dopo invitai M. (e l’altro) al lago, dove si sarebbero fermati a dormire per qualche giorno. Gli incontri ravvicinati del terzo tipo con M. non finirono, anzi. Si replicò in un contesto un po’ sbagliato: la festa a casa di I. Sostanzialmente quella sera, invece di dormire nel letto con la mia presunta ragazza, dormii con M., davanti a tutti, fregandomene. Assurdamente, nessuno sospettò, la cosa risultò “strana”, ma non mi si fecero grosse domande.

Pochi giorni dopo ci fu la possibilità di andare con M. e l’altro nostro amico in vacanza in Romagna. Presi l’occasione al volo, convinto che fosse quasi un andare incontro al destino. I sette giorni di vacanza scivolarono via tranquilli, nonostante alcune notti rimanessero saldamente dedicate al nostro passatempo preferito; qualcosa che alla luce del sole doveva scomparire come se non fosse mai successo. Eppure io rimanevo al suo gioco, implicitamente lo accettavo. Ne ero complice, ma ci soffrivo.

L’estate 2006 mi lasciava una maturità, una patente, un titolo mondiale, un’infatuazione sempre più forte per M. e, a sorpresa, una ragazza. Come avrei fatto combaciare queste ultime due cose? E come avrei reagito all’inatteso e sconvolgente coming out coi miei genitori, che spaccò l’aria come una bomba?

Tutto questo e molto, molto altro nell’interminabile FINALE DI STAGIONE di Bita, tra due settimane su queste pagine.

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