martedì 29 dicembre 2009

AUGURI (IN ANTICIPO)


Avrei voluto tanto tempo per scrivere un post mega chilometrico che potesse riassumere questo 2009 e le persone che l'hanno fatto, ma non l'ho avuto. O non l'ho trovato, poco cambia. Ciò non significa che di sicuro non lo farò, significa che molto probabilmente non lo farò :D

Quello che di sicuro farò, mentre chiudo le ultime valigie in vista della partenza di domattina per lidi romani e abruzzesi in compagnia degli amici del centro e del sud Italia, è fare gli auguri a voi lettori. Saltuari, costanti, fan, capitati qui per caso o semplicemente curiosi dell'ultima ora. AUGURI, che sia un bel 2010. Mi sento di augurarvi tre cose: che tutto ciò che volete davvero col cuore si possa avverare, che vi ritroviate l'anno prossimo più maturi di un anno, che continuiate a seguire questo blog :D

Buon anno :)

sabato 26 dicembre 2009

A CHRISTMAS CAROL - 3D


Innanzitutto ci tengo ad informarvi che il canto di natale di Dickens è una delle mie storie preferite da sempre. Davvero, amo (come ogni persona sana di mente) la versione di Topolino e Zio Paperone, ma adoro tutti gli speciali di telefilm ispirati a questa trama, perfino il dvd truffa partorito dal cast di Radio Deejay un paio di anni fa con Platinette nella parte del fantasma dei natali futuri. Immaginatevi quindi con che gioia mi sono accinto (accinto?) ad andare a vedere l'originale di Dickens, interpretata da un Jim Carrey cartoonizzato, in 3D, con moroso e mamma, il giorno di Natale, su una slitta con le renne. No, ok, la slitta non c'era, ma tutto il resto dell'ambientazione sì.

Il film è molto bello, soprattutto l'ho trovato curato e fedele all'originale di Dickens. La scelta di farne un cartone in grado di mantenere mimiche e tratti facciali degli attori è azzeccata, gli scenari (Inghilterra '800 rocks) sono fantastici. Il 3D è il valore aggiunto, la storia procede veloce e rigorosa, non annoiando mai. Ci ho visto perfino 5 omaggi ad altrettanti film: Peter Pan (quando Scrooge viene toccato al cuore e si mette a volare), Raperonzolo (quando il fantasma dei natali presenti "snoda" una sorta di treccia-cinta dell'abito cui appendersi), ET (quando Scrooge si staglia contro la luna), Il signore degli anelli (quando un personaggio inquietante esce da sotto la gonna di uno dei fantasmi) e Alice (quando Scrooge si fa piccolo piccolo sul finale). Ci ho visto un sacco di metafore, ci ho visto perfino più morali dell'originale. Ma saranno state visioni dovute al pranzo di Natale, quindi non badateci.

Voto: 7,5

giovedì 24 dicembre 2009

TELEFILM MANIA /2

Dato che ne vedevo pochi, ho pensato bene di aggiungere altre 3 perle al mio repertorio.

La prima è Glee. Il telefilm-musical che ha conquistato gli States e che approderà da noi proprio in occasione del Natale. Ciò che mette questo telefilm un passo avanti agli altri è la scelta delle canzoni, delle coreografie, di come tutto ciò viene contestualizzato nella storia e, naturalmente, dell'immenso talento dei cantanti e attori in forza a questo cast immenso. Non è la trama a spiccare, la storyline è abbastanza prevedibile ma è giocoforza al servizio di tutto il resto: diventa quello il contorno e il pretesto per scatenare l'irrefrenabile gioia di Glee. E' intenso ed emozionante, specie per chi ama la musica. Finora sono andate in onda 13 puntate della prima stagione, da Aprile ricomincerà dalla 14. Non vedetevelo in italiano, per carità di dio: sottotitoli e passa la paura.

Di tutt'altro ambito è In Treatment. Giudicato dagli addetti ai lavori una vera e propria chicca del genere, racconta delle sedute settimanali di uno psicoterapeuta e dei suoi pazienti. Le puntate sono divise settimanalmente: il lunedì ne vede una, il martedì un altro e così via, finchè si ricomincia la settimana dalla prima paziente. Detto così sembra essere incomprensibile a chi è abituato ai telefilm tradizionali, ma il percorso di crescita dei pazienti, dello stesso terapeuta e il percorso col quale lo psicologo arriva a fare capire ai pazienti parti di sè che ancora non conoscevano è il succo del tf, che diventa geniale nel suo essere costruito tutto sui dialoghi. In questo caso il doppiaggio è ben fatto e perde un po' di senso il vederlo coi sottotitoli (distraggono ad esempio dalle espressioni del viso degli ottimi attori) o addirittura in lingua originale (impensabile). Ho visto tutta la prima stagione (43 episodi da 20 minuti l'uno), è già andata la seconda stagione (anche in italiano), è in produzione la terza.

Chiudiamo con Better off Ted, simpatica commedia americana con personaggi brillanti e dialoghi azzeccati. Ne ho viste 6-7 puntate, su un totale di 13 della prima stagione. Niente di particolare, ma abbastanza divertente se volete un qualcosa di divertente e che non si prende troppo sul serio. Chiuderà i battenti dopo la seconda stagione a causa dei scarsi ascolti, ma io non l'ho trovato così male. Merita anche solo per il personaggio di Veronica, la cinica e assurda "capa" di Ted nell'altrettanto assurda azienda criminale in cui lavorano, la Veridian Dynamics.

Volevo vedermi anche le prime due puntate di United States of Tara, per farmi un'idea e decidere se aggiungerla alle serie da seguire. Vi farò sapere :)

domenica 20 dicembre 2009

NATALE! PAPPARARARARARARARA SPRAY! PAPPARARARARARARARA SALUTARE! PAPPARARARARARARARA

Perchè sono idiota e non so mai che titoli mettere.

Intanto buongiorno a tutti, sono vivo, vi ringrazio per i commenti in pubblico e in privato al finale di stagione del telefilm più seguito d'America, Bita, son contento che vi sia piaciuto/a :D
Fatto sta che Natale si avvicina e io non ho trovato niente di meglio da fare che ammalarmi.

Raffreddore, mal di gola, tosse, mal di testa e poi di nuovo, in altro ordine. Sono assolutamente indietro con i regali di Natale: ogni anno mi riprometto di cominciare ai primi di dicembre e ogni anno, puntualmente, mi riduco a comprare tutto il ventiquattro regalando per la fretta a mia madre l'abbonamento a For Men Magazine e a mio padre una pochette per andare a vedere il balletto a teatro. Ovviamente questa scheggia d'influenza doveva arrivare proprio in questi giorni, per farmi rispettare in pieno la tradizione.

Dovrei studiare, che il 7 Gennaio ho l'esame che odio di più, rinviato per anni fino a portarmelo qui, per cui devo studiare giusto a memoria quei milleseicento argomenti di cui me ne chiederà solo uno. E dovrò saperlo.

Ma non pensiamoci, che prima c'è un adorabile Capodanno :)

e Natale

e i regali -.-

lunedì 14 dicembre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 13^ E ULTIMA PUNTATA

L’estate 2006 era stata importante e ricca di eventi. Alla fine del mese di agosto avevo già scelto quali sarebbero state le uniche facoltà in grado di attirare la mia attenzione per un divenire universitario: psicologia e scienze della comunicazione. Per mia fortuna, in quel di Milano Bicocca trovai ciò che faceva al caso mio: un indirizzo che, sotto psicologia, univa i due ambiti e dava la possibilità di scegliere, in un secondo momento, in cosa specializzarsi. Posso dire che, al contrario di molti miei compagni del liceo, sento e ho sempre sentito che quello era l’indirizzo di studi giusto per me, ciò che avrei sempre voluto fare, anche in ambito lavorativo. Nei primissimi giorni di Settembre tentai il test, dopo essermi preparato nel corso dell’estate con qualche libricino apposito e dopo aver ripassato alcune nozioni scolastiche e vari concetti di cultura generale.

Superai bene il test (arrivai secondo, ndm – nota del modesto) e mi decisi definitivamente a iscrivermi proprio lì. I primi giorni di università furono piacevoli, nonostante l’ora e mezza di treno che mi costringeva ad alzarmi due ore e rotti prima del dovuto, in vista di un anno pienamente votato alla sacra arte del pendolarismo. Le interminabili ore di treno, in effetti, avevano il difetto (oltre al costo esorbitante, lo sporco e il rischio di colera, i ritardi, l’ammassamento di gente e chi più ne ha più ne metta) di darmi tanto, troppo tempo libero per guardare fuori dal finestrino e pensare. Sempre stata una mia predisposizione, quella di pensare fino allo sfinimento. Ma ciò gli ultimi accadimenti avevano mutato in me, mi aveva portato a mettere da parte pensieri sentimental-nostalgici quali “fino a pochi mesi fa andavo al liceo sotto casa, ora faccio l’università in un’altra città”, sacrificandoli al pensiero fisso di M., che non ne voleva più sapere di uscire dalla mia testa. Dopo un’altra estate di procrastinamenti, la situazione con lui non era mutata, rimaneva fissa in un ipnotico e fastidioso alternarsi tra notti in cui era una persona, mattine in cui faceva finta di nulla, giornate normali e serate in cui tornava ad essere un ragazzo adorabile su cui amavo fantasticare. Tuttavia, la mia “pseudo relazione” con I., eredità di un’estate in cui l’occasione di poter avere una ragazza mi aveva “preso con le mani nel sacco”, rimaneva attiva e aveva intenzione di proseguire anche per i mesi autunnali.

La mia testa e il mio corpo non riuscivano a reggere questo ritmo. La sveglia era puntata, per tre giorni alla settimana, sulle 6.01 (ho sempre odiato mettere la sveglia agli orari “tondi”, non so perché), per poter prendere il treno di 6.36 (sempre di corsa, ho ben altre idee di “risvegli soft”) e arrivare in tempo alla lezione di 8.30. Tornavo a casa verso sera, stanco e affamato, dovendo anche trovare il tempo di uscire con una ragazza che non volevo, ma che “dovevo farmi piacere”, perché in fondo così avrei risolto tutto. Un paio di volte alla settimana, inoltre, vedevo M., soffrendo per i tuffi al cuore che un suo sorriso o un involontario sfregarsi delle mani avrebbe causato riportando alla mente i dolci contatti notturni della primavera e dell’estate prima. Cominciai a passare il tempo libero chiuso in casa, al computer, chattando dalla mattina alla sera con alcune persone, conosciute qua e là sulla rete. Alternavo l’attesa del vedere M. online alla gioia di raccontare tutta la mia storia e tutta la mia vita a un paio di persone conosciute per caso su internet (e mai di persona), che vedevo per la prima volta in grado di capirmi, con le quali mi sentivo per la prima volta in grado di essere me stesso. In casa era una bugia unica, non avevo mai potuto dire nulla di me e non ne avrei mai avuto intenzione, con la mia migliore amica vivevo ancora con la mia falsa identità eterosessuale, con M. e l’altro ragazzo non potevo fare parola della situazione insopportabile, non potevo compromettere tutto. Finchè, semplicemente, non ce la feci più. E decisi di sparire.

Pubblicai sul blog un intervento dal titolo “Sparirò”, andai avanti a vivere le mie giornate tra msn e gli interminabili viaggi in università, sparendo completamente dalla vita di M., smettendo di rispondergli ai messaggi, rendendomi irreperibile in qualsiasi modo avrebbe potuto contattarmi. Provò a scrivermi, ma non gli risposi. Provò a chiamarmi, ma gli ignorai le chiamate. Dopo due giorni del genere si rese conto che l’unica cosa da fare era consultare il mio blog, e capii. Mi arrivò un messaggio, di cui ricordo ancora buona parte, avendolo tenuto in memoria per quasi un anno: “Bella idea, sparire. E io? Non resta niente a me? Ok, sono uno stronzo e non capisco (cos’hai, ndr), ma pensavo di essermi meritato qualcosa di più che il silenzio”. Ignorai anche quello. Il punto era che lui sapeva che io soffrivo perché “ero innamorato di qualcuno”, ma non voleva capire che si trattava di lui. O meglio, lo sapeva benissimo ma non voleva/poteva ammetterlo ad alta voce. Addirittura un giorno dopo il tennis, sotto la doccia (e mi scuso per la squallidezza, ma ho proprio il ricordo del fatto che mentre ne parlavamo mi fissava con lo sguardo che io riservo giusto giusto alle pubblicità di Giorgio Armani con David Beckham), ipotizzò che mi fossi innamorato della sua ragazza. Tutto ciò era così subdolo, così bastardo. E comunque ero rimasto al suo gioco fino a quel momento.

Dopo quasi una settimana in cui non gli risposi, fece una cosa inaspettata: venne a prendermi in stazione, dopo un giorno in università. Sentivo in cuor mio che l’avrebbe fatto, sapeva i miei orari e sapeva che l’avrei voluto; semplicemente non credevo avrebbe mai avuto il coraggio di farlo. Nel mio ipod risuonava “My heart will go on” (riproduzione casuale, intendiamoci), salii le scale della stazione e mi trovai di fronte il suo ciuffo moro inconfondibile. Cercando di contenere l’emozione, tirai fuori un “ciao” di proporzioni incontrollate, che risuonò per tutta la stazione. Parlammo un po’, io avevo il cuore a mille. Disse che aveva ragionato, e che se non mi ero innamorato della mia ragazza, della sua, di quella di un passante, di qualche compagna di classe, di mia mamma, della sua o di quella di un passante, evidentemente il problema doveva essere lui. Sarcasticamente gli feci i complimenti, dopotutto c’era arrivato così in fretta. Eppure, nonostante in cuor suo questa certezza si fosse fatta “voce”, ci rimase male. Mi lasciò a casa, decidemmo di non sentirci per un po’. Era quello che stavo cercando di fare da giorni, pigna.

A casa stavo male, i dialoghi con i miei genitori erano relegati al minimo sindacale. Passavo da intere giornate al computer a momenti in cui i rapporti con loro erano ridotti all’osso, in cui, a tavola, non si andava oltre al “mh, sì” e altri amabili discorsi monosillabici. Poi, una sera, dissi a mia madre che stavo male. Le dissi che me ne volevo andare, cambiare aria, cambiare gente, che non ne potevo più. Piansi un po’. Lei capii che qualcosa andava oltre, che c’era dell’altro, mi chiese se mi ero innamorato. Confermai. Respirò a fondo, si fece coraggio e me lo chiese. Mi chiese se mi ero innamorato di una persona del mio stesso sesso. Io non avrei mai voluto dire di me ai miei, ero convinto che non ne avrei fatto parola fino ai 40 anni, fino a quando non avessi avuto una indipendenza economica, fino a quando non avessi abitato in un’altra casa. Tuttavia, in quel momento non ero in me, la domanda mi aveva preso alla sprovvista, eppure era stata fatta con una buona dose di dolcezza, di comprensione. Semplicemente, mentire sarebbe stato inutile, insultante, ulteriormente fastidioso per la situazione in cui mi trovavo. “Sì”. Fu quel semplice annuire che fece cominciare ufficialmente il mio coming out coi miei. Cominciai a parlarne con mia madre, provai a rassicurarla sul fatto che la cosa riguardasse solo la sfera sentimentale, che comunque io fossi attratto dalle ragazze, ma il danno era fatto. Poche ore più tardi, trovando mio padre sveglio da solo in sala, parlai anche con lui. Ricordo le sue parole: “credo da un po’ di tempo che tu sia omosessuale, ma ho paura di chiedertelo”. Se solo avesse saputo quanta paura avevo io, di chiedermelo, forse avrebbe aspettato un altro po’. Il clima era teso, l’aria irrespirabile. I giorni successivi al coming out (parziale), i musi erano lunghi come quelli che fino a qualche anno fa mi erano destinati dopo un 4 in latino. Solo che questa volta non era colpa mia.

I miei genitori non la presero affatto bene. Il loro percorso d’accettazione stentò a partire, mi dissero che probabilmente non mi avrebbero accettato mai, che per loro la cosa era inconcepibile, che speravano in cuor loro potesse essere solo una fase, perché altrimenti la vita sarebbe stata terribile, costellata di immani difficoltà e loro non sarebbero stati in grado di affrontarla con me. Ricordo fasi di insulti senza capo né coda, ricordo di aver detto loro frasi di una volgarità inaudita, che se ci ripenso ora me ne vergogno sinceramente, ricordo altri momenti in cui si riusciva a parlare, con più calma, ricordo le loro notti insonni in sala, a parlare e piangere. Ricordo che non abbracciai mia mamma per alcuni mesi. Ricordo la sensazione di “tanto è tutto rovinato, tanto non torneremo mai più come prima, non torneremo mai ad essere una famiglia”. E giù insulti, e giù bombe a mano, per massacrarli, per farli sentire almeno un po’ come mi sentivo io. Per vendicarmi di certe frasi, per vendicarmi del fatto che fino a quel momento mi avessero ignorato e ora mi odiassero per quello che ero. C’ero già io ad odiarmi, bastavo e avanzavo.

Ricordo tanti momenti. Una notte, loro erano nel loro letto senza dormire, col bacino leggermente sollevato e lo sguardo perso nel vuoto. Li percepivo come se fossero morti, come se gli avessero tolto la voglia di vivere. Seduto sulla sedia in camera loro, mi misi a fare silenzio insieme a loro, con le stesse emozioni di chi finalmente riesce ad inserirsi in una discussione. Senza dire niente, mi pareva di riuscire a sintonizzarmi con loro. Anche quella sera, i miei tentativi di spiegarmi andarono a vuoto, sostituiti in breve da un litigio, dagli ennesimi insulti, dal mio chiudermi in camera, a chiave.

La fiducia era venuta meno: li detestavo perché pensavo mi detestassero. Meccanismo di difesa? Forse. Di sicuro non li aiutai, semplicemente perché non ero pronto per farlo. Non ero pronto io, avevo rinviato in continuazione il momento in cui mi sarei dovuto accettare, arrivando a un punto in cui i miei genitori sapevano di me senza che lo sapessi io.

Una domenica, con mio fratello presente (e ignaro), tirarono fuori una questione di messaggi sul cellulare spiati. Erano messaggi di un paio di ragazzi (gay) conosciuti su internet con cui messaggiavo in innocenza, parlando anche di omosessualità. Essendo loro convinti che fosse quel nuovo mondo, ad avermi portato sulla “cattiva via”, il discorso spiccò anche in presenza dell’altra parte della famiglia, nonostante mia cognata sapesse di me praticamente da sempre e si fosse sempre dimostrata dalla mia parte. Da parte di mio fratello non fu così. Quella sera mi chiamò, dicendosi preoccupato per ciò che aveva sentito uscire dalla bocca di mio padre. Mi raccontò la storia di un suo amico gay, con cui lui aveva provato ad essere amico, ma non era stato possibile perché lui ci aveva provato. Mi disse che i gay erano malati, contagiosi. Poi, la cosa più terribile, che anche oggi fatico a raccontare, perché la vissi come una violenza: mi chiese di giurargli che non fossi gay. “Giuramelo. Giuramelo!”. Al terzo imperativo glielo giurai, con scarsa convinzione. Capii che non avevo il suo appoggio, che avevo perso i rapporti con la mia famiglia, che così non potevo essere accettato.

A dicembre “lasciai” I., lei la prese male – era una ragazza fragile – ma fui abbastanza convincente nel farle capire (senza spiegarle niente) che il problema era mio e dovevo essere io a chiarirmi determinate idee.

Chi aiutò me e i miei genitori a venire fuori da un punto di non ritorno fu una psicologa. Decidemmo di andare da lei come ultimo tentativo, come ultima spiaggia. Facevamo sedute tutti e tre, poi altre volte andavano solo loro, raramente io da solo. Il punto non era, fortunatamente, far cambiare me, ma aiutare loro ad accettarmi, e aiutare tutti e tre a recuperare quell’unità familiare andata in frantumi. Quello che successe in quello studio fu un mezzo miracolo: quella terapeuta fu un angelo che, oltre ad aiutarci, mi fece innamorare ancora di più della materia. Per quanto riguarda noi tre, fu un percorso lunghissimo e decisamente tortuoso, che però, alla luce della situazione odierna, ha dato i suoi frutti.

“Mi feci passare” la cotta per M., che da una stupidata in nave mi aveva portato all’autodistruzione e ad uno dei momenti più critici della mia vita, facendomi perdere l’appoggio della mia famiglia e rendendomi, in qualche modo, la persona che poi avrebbe passato l’anno peggiore della sua vita. Semplicemente non lo sentii più, e quando lo risentii non provavo più le stesse cose per lui.

Mentre l’interminabile anno 2006 volgeva al termine, potevo riguardarmi indietro e notare i tanti, tantissimi avvenimenti che mi avevano portato a diventare quello che ero. Il percorso di crescita che mi aveva trasformato dal bambino che girava in bicicletta per le strade del lago a quel ragazzo che ora doveva ricostruire un delicato equilibrio familiare e accettare definitivamente la propria omosessualità. Potevo voltarmi indietro e rivedere anche gli errori che mi avevano portato a quel punto: tante bugie, tante cose nascoste e non dette, troppi rapporti vissuti più sulle idealizzazioni che su avvenimenti veri e propri. Ma avevo le carte in regola per diventare un ragazzo migliore.

Quello che non potevo sapere, però, era che l’errore più grande era già scritto a fuoco nel mio 2006 terribile. Non sapevo che in un momento qualsiasi di questa storia infinita, avevo già incontrato la persona che mi avrebbe devastato la vita, rivoluzionando me e tutto ciò che di buono ero riuscito a costruire. Non lo potevo sapere perché tutto ciò sarebbe successo nel corso di un 2007 infinito, fatto di lacrime e viaggi, di notti di passione e di atti di follia, fatto di colpi di testa e legami fortissimi, come mai era capitato prima. Un 2007 che, tuttavia, rimane soprattutto l’anno in cui ho conosciuto l’amore della mia vita, in cui ho dato il mio primo bacio e in cui, per la prima volta, ho fatto l’amore. Un 2007 che mi ha distrutto e fatto rinascere, nell’arco di pochi mesi.

Si tratta però di una storia lunghissima, che merita da sola un’intera stagione di “Bita”, che in un secondo momento spero di trovare il coraggio di scrivere. Perché certe cose, ricordarle, fa ancora male.

Ringrazio chi è giunto fino a qua, chi mi ha dimostrato affetto e si è trovato bene nel leggere la mia comune storia. E dico comune perché, nel raccontarla, non ci ho trovato niente di particolare, né ci ho dovuto aggiungere alcun particolare romanzato. La sua particolarità è stata quella di essere vera, di essere un percorso di crescita, o di essere stata vissuta. E sono questi elementi che rendono particolari e interessanti le storie di tutti noi.

Se vorrete, se vi interesserà, la seconda stagione di “Bita” la troverete prossimamente su queste pagine. Dietro lauto conguaglio economico, si intende J

domenica 13 dicembre 2009

SANTA LUCIA


Al nord - non so in che regioni esattamente - la figura di Santa Lucia è molto più attesa e molto più sentita di quella di Babbo Natale (personalmente, per intenderci, nessun regalo è mai stato spacciato come "da Babbo Natale", i miei ci han sempre tenuto, almeno a Natale, a specificare che era tutta una cosa di tasca loro :-D). Nella notte tra il 12 e il 13 Dicembre, infatti, Santa Lucia porta una badilata di regali ai bambini che sono stati buoni (ma alla fine anche a quelli che sono stati cattivi) rendendo loro indimenticabile la mattinata successiva.

Per me è sempre stata una festa immensa, molto più di Natale. Andavo a letto, la sera prima, in fibrillazione. Facevo sempre fatichissima ad addormentarmi, non vedevo l'ora che fosse la mattina dopo, ero combattuto tra la curiosità di aspettare e cominciare a sentire i rumori di Santa Lucia e dell'asinello (sì, era mulo-dotata), tra la paura che la troppa curiosità mi portasse a non ricevere regali e l'adrenalina in vista della mattina dopo. A dirla tutta, probabilmente i miei genitori si divertivano più di me: mia madre si occupava di dolci e regali, mio padre di una parte fondamentale, ossia la presentazione. Inondava la sala con stelle filate, infilandole ovunque, creando una sorta di ragnatela in cui amavo districarmi per arrivare ai regali.

La mattina di Santa Lucia mi svegliavo euforico, arrivavo alla sala tramite un sentiero di caramelle, rimanevo senza fiato per lo stupore delle stelle filanti, cominciavo a guardare i miei regali, che per la maggior parte ricalcavano fedelmente ciò che avevo scritto nella mia letterina - ero un bambino fortunato. Ogni singola caramella per terra era simbolo di quella mattina piena di belle sorprese ovunque. Era probabilmente la mattina più bella dell'anno, insieme a quella del mio compleanno. Sapere la "verità" mi aveva ferito tantissimo, non potevo accettare di aver creduto in qualcosa che non esisteva, ma probabilmente stavo solo faticando ad accettare il fatto di diventare grande.

Che poi non è detto che crescendo Santa Lucia si dimentichi di noi bambini buoni :-)



Sapevate che Wall-E è il mio cartone preferito? Santa Lucia sì :-D

giovedì 10 dicembre 2009

AL NON CUOR SI COMANDA

Dispiace dover far partire il secondo post in pochi giorni con uno spunto nato da Facebook, ma è comunque una cosa d'ampio raggio che avevo in testa già da parecchio. Ora, capita che un mio contatto scriva uno status d'amore dedicato al suo ragazzo (ma che c'hai tutti gay su facebook? abbastanza) e concluda con "ti amo amore mio". Viva l'amore, per carità; ma vogliamo scoprire da quanto stanno assieme 'sti due? Toh, dal 4 dicembre. Ossia, visto che questa cosa l'ha pubblicata l'otto dicembre, il "ti amo" è volato via leggero dopo qualcosa come quattro giorni.

Sorvolando sulla questione del "Ti amo" (giusto dirlo? Quando? Come? Son solo parole? E' davvero difficile dirlo?) che meriterebbe un post a parte, mi pare di notare, recentemente, una certa "smania" da parte di novelli fidanzatini o presunti tali, nel voler bruciare le tappe, nel volere arrivare alla consapevolezza dello stare assieme, del fatto di amarsi trpp un kasino xoxo per poi lasciarsi con altrettanta velocità e, naturalmente, soffrire a suon di 10 gruppi strappalacrime sempre sul celebre social network.

Esattamente da cosa deriva questo bisogno? Sembra "una gara", dai dai l'importante è stabilire che siamo assieme e "dire che stiamo assieme", dire che sono fidanzato. Vedo nascere storie tra alcuni conoscenti e io, che appunto a malapena so chi sono, posso già stabilire con relativa certezza che quella "cosa" durerà il tempo di qualche scrausa settimana. Sono io un veggente o sono loro, che nel dirsi ti amo dopo due ore, nel giurarsi amore eterno dopo 4 e nel lasciarsi dopo 6, stanno facendo le cose tanto per fare?
Non c'è un tempo giusto in cui far maturare la relazione, ma ci sono step necessari che permettono la conoscenza dell'altra persona e il normale maturare della sfera di coppia. Come posso amare una persona che conosco da poco o niente?

Io, senza dare troppi spoiler per un'eventuale seconda stagione di Bita :D, ci ho messo un po' a dirlo, a maturarlo, e sono convinto che non fosse nemmeno quello il momento giusto. Per carità, ho un bellissimo ricordo del mio primo - e ultimo, perchè l'ho detto sempre e solo al mio attuale ragazzo - ti amo, ma probabilmente nella fretta di dirlo (e si parla di mesi passati prima di farlo, intendiamoci), l'ho detto prima che il mio amore per lui fosse completo. Che poi completo non lo è mai, perchè lo amo in un modo più maturo e profondo ogni giorno che passa, ma questa è un'altra storia.

domenica 6 dicembre 2009

L'IMPORTANZA DI CHIAMARSI RIVER

Non sono un blogger. O meglio, lo sono giusto perchè dal 2005 ho un diario online (prima di là, ora di qua) che aggiorno saltuariamente con quello che mi va. Sono soprattutto un fruitore, della rete e dei blog. E uno dei blog che ero solito leggere era River-blog, una finestra sul mondo gay da parte di un ragazzo (presumibilmente sui trent'anni passati) che tanto di buono ha fatto in questi anni. Suoi gli "scoop" più famosi, anche complici i suoi contatti col mondo dello spettacolo, sua la presenza puntuale nei momenti più delicati, quelli delle aggressioni, degli atti di omofobia.

Fosse solo questo, sarebbe il blog del secolo. Ma non lo è. River Blog è andato peggiorando mese dopo mese, giorno dopo giorno, fino ad arrivare a ciò che è ora, un frivolo blog auto-celebrativo con mire da diario-guida di ciò che è in, di ciò che si può fare e di ciò che, invece, è considerato out, brutto, da non fare. Niente di diverso dal bon ton di Lina Sotis, per intenderci. A rendere il tutto più lezioso ci si mettono i commentatori (dimmi chi ti commenta e ti dirò chi sei) che, inseriti in questo contesto di guru del viver bene, sono concordi con River sia che dica una cosa sia che ne dica il contrario. Dopotutto lo spazio per i contraddittori non è assolutamente concesso, visto che River modera i commenti lasciando solo quelli a lui graditi. Io stesso mi sono visto respingere due-tre commenti che esprimevano un'opinione diversa a quella di un suo post, senza che questi contenessero la benchè minima volgarità. Per carità, uno è libero di pubblicare sul suo blog ciò che vuole, senza arrivare ai livelli di Spetteguless (di cui vorrei parlare in un secondo momento) in cui il clima è invivibile, ma se si censurano le opinioni diverse dalle nostre instauriamo la stessa monarchia che non ci piace vivere in politica.

Il suo modo di scrivere, poi, mi irrita. Una sequela di luoghi comuni imbarazzanti spezzati da parolacce fuori luogo e pure fastidiose da leggere, in una volgarità cruda e gratuita che lui scambia per grande talento letterario. Addirittura i suoi fidi commentatori sono arrivati a dirgli "sei il nuovo James Joyce". In quel preciso istante ho sentito diversi tonfi sordi: non solo Joyce si è rivoltato nella tomba, ma pure tutti i suoi omonimi. Le sue frasi, le sue stroncature, le sue recensioni, pure alcuni racconti di vita vissuta, giocano a prendersi troppo sul serio, come se quel piccolo diario fosse la cartina tornasole del suo successo nella vita (non mi permetto di dire che sia così, dico che sembra così, leggendolo).

E' un tempio sacro che assume troppa importanza per essere "solo" un blog, è concesso l'accesso solo ai fedeli, come se un'opinione contraria e una spaccatura dell'opinione altrui potrebbe risultare "troppo" per il blogger e la sua fragile autostima. O eccessiva, a seconda dei momenti. Ed è un peccato non volere un bel dialogo e limitarsi alle persone che ci incensano, perchè in fondo si butta via il significato insito di blog.

martedì 1 dicembre 2009

ALLA TUA MOROSA PIACE QUESTO ELEMENTO

Il problema è questo: ho due amici su Facebook - gay - che stanno assieme da un paio di mesi. Come il 98% della popolazione omosessuale, non sono dichiarati (beata ingenuità/cecità/sordità dei loro parenti e amici, ma tant'è) e, quindi, non possono far trapelare la loro relazione. Fin qui vabbè, capita.

Ma solo io trovo brutto (per non dire squallido) il fatto che su Facebook parlino del proprio ragazzo al femminile? Voglio dire, nessuno ti (vi) obbliga a mettere "fidanzato ufficialmente", a dedicarvi ogni singolo link (di quelli alla "Moccia" per intenderci), ogni status, ogni mezza frase. Se lo fate accettate implicitamente che vi venga chiesto conto, altrimenti vi comportereste con più discrezione. Ma poi dov'è finita la sacra arte del "parlare in seconda persona senza specificare la terminazione di genere", con cui ho convissuto per tutta l'adolescenza (alla "sei una persona fantastica e speciale", per intenderci)? Non è davvero triste parlare al femminile per mettere a tacere i dubbi di persone che, se non sono amici, non sono tenuti a sapere le vostre cose e, se sono amici veri, si meritano di sapere la verità?

Ma soprattutto, se davvero vi interessa non insospettire la gente, perchè questa invasione su facebook, quel mettere "mi piace" ad ogni link dell'altro per poi commentare in modo "etero" in stile "sei un grande vecchio". Non è avvilente? Solo io mi farei un po' schifo a fare così?

Non è un modo per giudicare loro, che son due ragazzi simpatici e han tutte le attenuanti del caso, voglio proprio solo sapere da chi mi legge. Solo io lo vivrei come uno svilimento del rapporto (e un controsenso, vabbè) o anche per voi è una realtà quantomeno difficile da condividere?