lunedì 12 ottobre 2009

BITA - ALE DAGLI ANNI '90 AD OGGI - 5^ PUNTATA

14 Settembre 2007. Guardo per terra e mi chiedo cosa mi abbia portato a questo punto. E soprattutto cosa mi abbia spinto ad uscire in maniche corte. Diavolo, è Settembre. N. fuma nervosamente seduto sul muretto della casa dei vicini. Ho sempre osservato quella villetta, ma in 19 anni di lago ci sono entrato solo una volta, per una ripetizione di matematica. Guardo la casa, guardo per terra, guardo lui, aspettando inutilmente, come sempre, una reazione. E tremo, tremo per il freddo, per il vento che mi sta congelando e per il suo silenzio che come al solito mi spiazza, mi fa perdere. "Ohi... dai, andiamo a casa", riesco a dirgli alla fine.

14 Settembre 2003. La terza liceo, inspiegabilmente, mise la mia classe davanti ad un nuovo inizio. Non so perchè, infatti, ma nella mia scuola erano soliti scorporare una classe, a fine biennio, sparpagliandola tra le altre sezioni. A noi capitarono 5 ragazzi (tutti maschi, nessuno notevole sotto il punto di vista che interessava a me). C'è da dire che la mia cara vecchia sezione A non brillava per rapporti idilliaci tra gli scolaretti (e soprattutto tra me e gli altri, oserei dire), pertanto l'introduzione di 5 nuovi elementi non "rovinò l'equilibrio", semplicemente aggiunse altri estranei ad un gruppo di estranei. Il mio rapporto con Fra, nel contempo, si faceva sempre più stretto e morboso. Arrivati in classe, il primo giorno, trovammo presi i posti migliori, mentre due banchi, inspiegabilmente staccati dal resto della classe e situati alla destra della cattedra (verso il calorifero e le finestre, per intenderci) erano liberi. Senza esitazione prendemmo quelli. Fino a metà anno nessuno ci spostò più da lì. Il risultato, manco a dirlo, fu un'ulteriore distacco da parte nostra nei confronti del presunto gruppo-classe. I commenti da parte degli altri si sprecavano; si passava dalla teoria accreditata secondo la quale eravamo fidanzati, a quella più accattivante (ma in effetti realistica) in cui ci davano per gay e lesbica. Tuttavia non si disdegnavano neanche curiosi voli pindarici, secondo i quali praticavamo esoterismo e satanismo, o, più semplicemente, ci drogavamo. Da parte nostra, a dire il vero, non ci fu grande interesse a sconfessare quel branco di capre, li sfottevamo come unica arma in nostra difesa, aumentando quel gap spaziale e mentale che ci divideva irrimediabilmente da loro. Il profitto scolastico, nel contempo, tendeva a diminuire: neanche i professori ci vedevano di buon occhio (qualcuno ci detestava anche cordialmente) e i voti scendevano in picchiata. A metà anno, per la felicità di molti e l'angoscia di altri, fummo reintegrati tra i banchi normali, tornando anche fisicamente a far parte di quella classe che, come per magia, cominciò ad avvicinarsi a noi.
Del rapporto con Fra, tuttavia, non rinnego niente. Tutto ciò che può avermi tolto in quegli anni me l'ha ridato in altre forme. Soprattutto (e ho detto niente), nell'aiutarmi ad accettare la mia sessualità. Con sempre meno frequenza, infatti, mi trovavo a millantare cotte o attrazioni per ragazze, potendo parlare con FRAnchezza (ahahah) con lei dei ragazzi che mi piacevano o cui avrei volentieri destinato le mie botte d'ormoni adolescenziali (come se da bambino... vabbè, lasciam perdere). Fu in quel periodo che cominciai a farmi domande ad alta voce sulla mia sessualità, senza troppo preoccuparmi delle risposte. Ero ancora lontano dal riuscire a definirmi tranquillamente gay, ma fu senza dubbio in quei momenti che a quella domandina che tutti noi tendiamo a spingere sempre più a fondo, man mano che lei inevitabilmente sale a livello conscio, un adorabile "chissenefrega, intanto faccio quello che voglio, poi si vedrà".

In realtà il "poi si vedrà", a livello conscio, si traduceva (per placare gli innegabili momenti di paura, quando mi ritrovavo a pensare al mio futuro) in un "finchè son giovane vado con chi voglio, poi da grande mi sposerò e avrò una vita normale". Solo ora posso capire che quell'autoconvinzione era dettata da un insieme di stupide norme sociali, da un non voler deludere i miei genitori, dal considerare normale solo la vita stereotipata (e fasulla, tra l'altro) perpetuata dalla società che di fronte dice una cosa e alle spalle fa tutt'altro. Solo ora posso sapere che la vita normale, ora che sono tranquillamente gay (e continuero ad esserlo, uuuh se continuerò ad esserlo), la avrò comunque. A vent'anni come a cinquanta.
Era altresì arrivato il momento di dire di me alle persone più vicine. La prima "destinataria" di tale messaggione fu Elisa, un'amica conosciuta sempre nel frangente lago con la quale da sempre condividevo un rapporto molto aperto. Lei, eufemisticamente smaliziata e anti conformista, mi aveva sempre reso partecipe della sua attiva vita sessuale. Io, dal canto mio, ero riuscito solo ad inventare o a introdurre timidamente qualche figura maschile parlando dei miei primi pensierini erotici. Quello che era successo quell'estate, tuttavia, le doveva essere raccontato. Presi il telefono in mano e la chiamai. Dopo due-tre minuti in cui parlammo del più e del meno le dissi che dovevo dirle qualcosa. Lei non fiatò. Le raccontai del romano coatto, dello scout febbricitante e della mia estate ornitologica di cui lei, fino a quel momento, non aveva saputo nulla. Accolse la notizia con la gioia che proverei se vincessi 10 mila euro a win for life. Era inspiegabilmente felicissima. Mi urlò al telefono che era contentissima e soprattutto fiera di me. Lì per lì la reazione mi infastidì, pensai che la sua felicità poteva essere circoscritta al fatto di essersi resa conto di avere trovato il classico "amico gay" da stereotipo. Tuttavia, le sue rassicurazioni mi tranquillizzarono: era fiera di me, sospettava che io fossi gay ("bisessuale", la corresse al volo il Camillo Ruini che avevo dentro la mia testa) ed era molto contenta del fatto che fossi riuscito ad accettarmi e a dirglielo. Il nostro rapporto migliorò e le confidenze che prima viaggiavano solo dalla sua bocca alle mie orecchie, diventarono felicemente reciproche.

Quell'estate al lago fu, anche per questo motivo, più ricca. Mi mancava, tuttavia, il coraggio di dirlo anche alla Betta. Così fu un'estate di confidenze, quando mi trovavo solo con l'Elisa, e silenzi in attesa del momento giusto, quando ci trovavamo anche con la Betta. Un momento giusto che sembrava non arrivare mai, dato che troppo mi spaventava la sua possibile reazione. Escluso categoricamente, poi, che potessi dire qualcosa a Marco, l'altro "fratellino" del lago. Un ragazzo e per giunta di due anni più piccolo? Nella migliore delle ipotesi avrebbe smesso di rivolgermi la parola. Ero ancora troppo giovane, troppo inesperto e troppo alle prime armi con l'argomento.

Al ritorno a Brescia, cominciò anche la quarta liceo. Con l'arrivo del freddo autunno, arrivò qualcosa che non avevo mai provato prima. Fu un cappotto rosso a rubare la mia attenzione durante una ricreazione, un cappotto rosso che non avevo mai visto prima e che avrebbe risvegliato in me un curioso talento alla Sherlock Holmes per poterlo ritrovare. Ero disposto a tutto, e difatti arrivai a fare l'impensabile...

(continua)

3 commenti:

  1. Ma quanto mi prende sto racconto ... :D

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  2. Non vedo l'ora di arrivare a quel momento

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  3. E' decisamente e dannatamente interessante!
    son curioso di proseguire la lettura!

    PS. non ti facevo cosi intraprendende! mi hai stupito con il flauto della scorsa puntata :P

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